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Ricordare Genova è anche dirsi che non è stata invano

© Chris Slupski, unsplash

La narrazione mainstream lascia nell’ombra il racconto delle tante iniziative e dei molti progetti “alternativi” al modello di sviluppo dominante. “Ventun anni dopo il G8 noi resistiamo e continuiamo a cambiare le cose”, riflette Angelo Miotto

C’è uno stupore a doppio senso di circolazione. Lo si vede quando in diverse città si incontrano tante persone per parlare dell’attualità e di come fermarsi a riflettere su come ci appare vada il mondo. Una sera su Radio Popolare si aprono i microfoni e il conduttore riassume il nostro presente fra siccità, guerra (o meglio guerre, perché non si combatte solo in Ucraina) temperature che bruciano, salari fermi al palo, virus. E lancia una domanda: come vi sentite? Qualche giorno dopo ragionando a Roma, a Milano, a Vicenza di un sistema capitalistico che ci costringe a correre nella ruota arriva un’altra domanda dal pubblico: ma come si fa a cambiare?

Ventun anni dopo Genova, e ribadito che i semi sotto la neve sono comunque germogliati, conviene affrontare queste domande con il duplice stupore che va in direzioni opposte. Il primo è lo stupore di chi non riesce a vedere soluzioni e che vive una situazione di resa lunga anni, resa ancora più drammatica dalla pandemia, come uno scivolamento inevitabile dentro sabbie mobili che pur lottando, o non opponendo resistenza, trascinano verso il basso le nostre esistenze. Come se fosse un destino ineluttabile, aspettando che qualcuno ci butti una corda cui aggrapparci. Ma la corda non si palesa, o a volte si spezza e si finisce in una sorta di rassegnazione pericolosa e tragica, dove il senso greco della tragedia ben rappresenta l’opposizione a un destino con la consapevolezza di non riuscire a sovvertirlo.

Il secondo stupore è, però, quando nelle platee calano alcune parole, che sembrano avere un effetto taumaturgico: la compassione, intesa come sentire insieme, la relazione, intesa come un intreccio di fili che riescono a formare dei nodi, che costruiscono una grande rete, forte e resistente. Ci sono innumerevoli esperienze che crescono come i fili d’erba, senza far rumore. Anzi, per essere precisi il rumore lo fanno ed è una musica, la polifonia di quando ci si unisce per costruire qualcosa insieme. Sono progetti sociali, bandi europei, iniziative che coniugano la parte migliore del privato con il pubblico, dove il privato non è il munifico bancomat che vuole solo ottenere benefici fiscali, ma crede fermamente in quello che riesce a fare insieme al pubblico, che rimane la nostra sfera di riferimento, in quanto cittadini.

La notizia, lo si vede dai volti di chi ascolta, è assordante: non ci si pensa spesso a come rispetto alla grande cappa della peggiore finanza internazionale, degli sfruttamenti, l’estrattivismo nei confronti di persone e delle risorse naturali, esista una rete globale che lavora quotidianamente nel sociale, dove ci siamo noi. Che, retorica a parte, siamo le nostre relazioni, alla fine. Il segreto è che questa parte del mondo è come il lato in ombra della luna: ci viene mostrato troppo spesso solo quello che ci opprime e in qualche modo ci assoggetta. Una sorta di anello del potere, che ci tiene schiavi, come nella narrazione tolkeniana. È vero, ci sono esempi di una comunicazione che cerca di mettere in luce le “buone nuove”, come se fossero una specie a parte, rara, perché -anche questo è vero- spesso l’informazione viene sedotta dal trauma, dalla cronaca lugubre e funerea, sulla quale ricamare allo sfinimento un unico riflesso pavloviano che ci getta in faccia la paura, il terrore, la preoccupazione, il mugugno e la rabbia.

E invece. Se riuscissimo a diventare noi stessi un amplificatore, un passaparola mondiale, di quante iniziative ci parlano di collaborazione, condivisione, partecipazione, solidarietà, forse la smetteremmo anche di dire che abbiamo perso. Ah, ma comandano “loro”. È vero, comandano e straziano, grazie a una capacità seduttiva del capitalismo che ingloba le critiche e si rende sempre più forte, che si appropria dei nostri discorsi, delle nostre ragioni e le sputa fuori come se fossero successi legati a uno sviluppo che non avrebbe avuto altra strada possibile.

Non è così. I semi germogliano e le piantine crescono, a volte sono veri e propri alberi, dal tronco già possente. Ma non hanno lo spotlight di una narrazione pubblica, o nei rari casi in cui questa avviene, sono delle splendide -e curiose per chi le presenta- eccezioni. Buonismo, quasi una sorta di presentazione della fiera delle ingenuità: i pacifisti, chi salva i migranti in mare, chi vive rispettando la stagionalità dei prodotti della terra, chi si oppone all’iperconsumo annoiato. Se invece riuscissimo a percepire che “loro comandano”, ma noi resistiamo e cambiamo le cose, e che siamo maggioranza, se riuscissimo a espellere da noi stessi tutto l’individualismo di cui ci hanno imbevuti anche nel racconto e nella proposta comune (proprio come accadde a Genova 21 anni fa), forse, anzi sicuramente, troveremmo una forza inaspettata e un’energia rinnovata che si fa beffe della rassegnazione. Ricordare Genova è anche dirsi che non è stata invano.

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