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Economia / Opinioni

Perché è necessario adeguare i salari reali all’inflazione

L'Euro-Skulptur di fronte alla sede della Banca centrale europea a Francoforte sul Meno in Germania © depositphoto

Bloccare le retribuzioni in questo momento storico comporta un impoverimento diffuso della popolazione difficile da accettare. La rubrica di Alessandro Volpi

Tratto da Altreconomia 249 — Giugno 2022

L’economia italiana si sta avviando a una fase di grande difficoltà rispetto alla quale ogni previsione di tipo quantitativo rischia di essere un puro esercizio formale. Sono diversi gli elementi che fanno presagire un rapido peggioramento del quadro. In primo luogo il nostro Paese è caratterizzato da un sistema di trasformazione in larghissima parte dominato dalla piccola impresa; le centinaia di migliaia di microimprese italiane dovranno fare sempre più i conti con un forte aumento dei prezzi di energia, materie prime e semilavorati che difficilmente riusciranno ad assorbire.

Le catene di approvvigionamento sono paralizzate dalla pandemia, dalla guerra in Ucraina e da una serie di colli di bottiglia logistici che, insieme alla natura speculativa dell’inflazione, stanno rendendo i costi d’impresa non più sostenibili per realtà a bassa capitalizzazione e con difficile acceso al credito bancario.

L’inflazione, che continuerà a correre, sta erodendo il mercato interno, bruciando consumi e potere d’acquisto con effetti di impoverimento di fette crescenti della popolazione; è sufficiente ricordare che circa cinque punti dell’attuale inflazione (vicina al 7%) dipendono da fattori che non sono contemplati nell’indicizzazione dei salari. Questo significa che i salari, già molto bassi, diventeranno ancora più poveri in termini reali. Nel frattempo gli ammortizzatori sociali e il ricorso alla cassa integrazione -estremamente costosi in termini di spesa pubblica- risultano del tutto insufficienti. Anche la creazione di nuovi posti di lavoro manifesta una sostanziale tendenza alla ristrutturazione dell’occupazione e oltre la metà dei nuovi occupati ha un contratto a termine.

La stessa inflazione sta pericolosamente convincendo la Banca centrale europea (Bce) a ridurre le politiche monetarie espansive con la conseguente impossibilità di ricorrere al debito per finanziare la spesa pubblica. Nel caso delle ultime leggi di bilancio circa la metà delle coperture sono dipese dal debito garantito dalla Bce. Un’altra delle condizioni dell’indebitamento, rappresentata dall’euro forte, sta venendo meno per effetto della guerra. Un indicatore di questo peggioramento proviene dagli spread che si stanno riavvicinando a 200 punti rispetto ai titoli tedeschi.

A metà maggio 2022 l’inflazione ha raggiunto il 7%. Un probabile incremento nei prossimi mesi andrà a erodere ulteriormente il reale potere d’acquisto dei cittadini.

Tutto il settore agricolo è angustiato dall’esplosione dei prezzi di grano tenero e fertilizzanti. L’alto costo delle materie prime e dell’energia mette in crisi vasti settori della siderurgia e della meccanica, mentre l’embargo di alcune importazioni dalla Russia, come il legno, metterebbe in ginocchio il comparto dell’arredamento. Dunque, è difficile fare previsioni, ma in un’economia incapace di reggere l’incertezza come quella italiana questo dovrebbe indurre a uscire dalla narrazione fiabesca del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr).

Tre cose sarebbero necessarie subito: un tetto europeo ai prezzi dell’energia, una definanziarizzazione immediata almeno del settore dei beni agricoli e la destinazione quantomeno del nuovo debito contenuto nel Pnrr al sostegno al potere d’acquisto dei cittadini europei. Senza queste precondizioni, i prossimi mesi saranno molto duri soprattutto se prevalesse la logica di evitare gli aumenti salariali. Se l’inflazione cresce solo per l’aumento dei prezzi di energia e materie prime, non ci sarà alcun effetto sul Pil nominale e sulla sostenibilità del debito. Se, invece, si produrrà un aumento salariale indicizzato in termini reali, questo dato farà salire il Pil nominale e dunque potrà rendere il rapporto debito-Pil più sostenibile. Bloccare le retribuzioni in piena inflazione comporta un impoverimento diffuso difficile da accettare.

Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento

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