Economia / Attualità
Crisi climatica e guerra ai migranti: BlackRock, Vanguard e StateStreet sotto accusa
Con le loro scelte di investimento i colossi finanziari stanno favorendo l’inazione climatica, la criminalizzazione delle migrazioni e la militarizzazione dei confini. La denuncia nel report curato da Tni e Friends of the Earth
“Fornendo un significativo sostegno finanziario alle industrie responsabili della crisi climatica e della sorveglianza, le società di asset management BlackRock, Vanguard e StateStreet stanno favorendo l’inazione climatica, la criminalizzazione delle migrazioni e la militarizzazione dei confini, il tutto mentre si presentano come sostenibili e attente al clima”. È la denuncia contenuta nel rapporto “Cashing in on crisis”, pubblicato a metà marzo dall’organizzazione ambientalista Friends of the Earth e dal centro di ricerca indipendente Transnational institute (Tni). Continuando a finanziare il comparto dei combustibili fossili e l’agribusiness, queste realtà alimentano il cambiamento climatico che a sua volta determina inaridimento dei suoli, desertificazione, esondazioni dei fiumi e altri eventi climatici estremi costringendo milioni di persone a lasciare la propria casa e il proprio Paese. E per limitare i flussi migratori -provenienti in larga parte da nazioni a basso reddito- Europa e Stati Uniti erigono muri e investono miliardi di euro e di dollari nelle più sofisticate tecnologie di sorveglianza digitale.
Le tre società al centro dell’analisi hanno investito centinaia di miliardi di dollari nei tre settori presi in esame: spicca Vanguard, con oltre 386 miliardi di dollari investiti tra oil&gas, agribusiness e sorveglianza delle frontiere, seguita da BlackRock (171 miliardi di dollari) e StateStreet (116 miliardi di dollari). Per quanto riguarda il comparto dei combustibili fossili, ad esempio, hanno partecipazioni consistenti in British Petroleum, Chevron, Exxon-Mobil, Shell e Conoco Philips che figurano tra le prime venti compagnie responsabili di emissioni di gas serra a livello globale: “I cambiamenti climatici estremi colpiscono in maniera sproporzionata i Paesi a medio-basso reddito, che sono i meno responsabili della crisi” si legge nel report che evidenzia come l’inquinamento atmosferico causato dai combustibili fossili provochi la morte di circa sette milioni di persone ogni anno. Altrettanto pesanti sono gli impatti causati dalle società dell’agribusiness: nel 2019 sono andati in fumo oltre 850mila ettari di foresta per lasciare spazio alle colture di palma da olio (rilasciando in atmosfera 708 milioni di tonnellate di CO2), mentre in Amazzonia nello stesso anno sono stati cancellati 900mila ettari di foresta per permettere l’allevamento di bestiame -la cui carne viene poi in larga parte esportata in Europa e negli Stati Uniti-.
Gli impatti sul clima e sull’ambiente di queste industrie costringono ogni anno milioni di persone a emigrare alla ricerca di migliori condizioni di vita. Sebbene non ci siano dati precisi sul numero di migranti e sfollati causati dalle conseguenze del cambiamento climatico si stima che nel 2020 i disastri naturali (comprese siccità, incendi, esondazioni, tempeste e temperature estreme) abbiano causato più di 30 milioni di sfollati interni. “Mentre il numero di persone che migrano in cerca di sicurezza, protezione e dignità continua ad aumentare, i governi si affidano sempre più all’industria della sorveglianza per limitare i movimenti e mantenere la ‘sicurezza delle frontiere’ -denunciano Tni e Friends of the Earth-. Questo è in gran parte dovuto all’influenza delle industrie attive nel settore nel presentare il cambiamento climatico come un come un problema di sicurezza nazionale e internazionale, e la migrazione come una minaccia”.
Si tratta di un settore che ha ricevuto importanti finanziamenti da parte dei governi: tra il 2013 e il 2018 Stati Uniti, Germania, Giappone, Regno Unito, Canada, Francia e Australia hanno speso 33,1 miliardi di dollari per questo settore (più del doppio rispetto ai 14,4 miliardi destinati alle politiche per il clima). Gli investimenti pubblici nel settore sono cresciuti in maniera rilevante sia negli Stati Uniti -dove i costi per la “gestione” della frontiera con il Messico sono passati dai 9,2 miliardi del 2003 ai 25 miliardi del 2021- sia in Europa, dove il budget dell’Agenzia Frontex è passato da 5,2 milioni di euro del 2005 ai 460 milioni del 2020 (con 5,6 miliardi preventivati tra 2021 e 2027).
Vanguard, BlackRock e StateStreet finanziano, ad esempio, aziende che gestiscono carceri private e centri di detenzione per migranti, come CoreCivic e Geo Group: quest’ultima nel dicembre 2019 è stata al centro di una causa portata avanti da alcuni detenuti che hanno denunciato pratiche di lavoro coercitive, tra cui “la violazione del salario minimo e delle leggi contro la schiavitù per aver costretto i detenuti a lavorare gratis”. Ci sono poi aziende come Amazon e Accenture che forniscono ai governi gli strumenti e le tecnologie per tracciare gli spostamenti delle persone ai confini e per schedarle tramite i loro dati biometrici. Amazon, ad esempio, fornisce il servizio di server alle società che permettono all’Immigration and customs enforcement (Ice – l’agenzia federale statunitense per il controllo delle frontiere) di profilare, tracciare e imprigionare i migranti: la società fondata da Jeff Bezos, denunciano le associazioni nel report, si è assicurata un ruolo controverso come “spina dorsale nell’applicazione della legge federale sull’immigrazione, permettendo all’azienda di ottenere contratti miliardari” e accumulando, al tempo stesso, una quantità di dati senza precedenti.
Le conseguenze di questi investimenti non si misurano solo nei danni ambientali provocati, ma anche nella violazione dei diritti umani fondamentali, sia lungo le frontiere sia nei Paesi di origine dove solo nel 2020 sono stati più di 200 gli attivisti assassinati per aver cercato di proteggere la propria terra e tutelare i diritti delle comunità locali minacciati da progetti estrattivi o di agribusiness. Nel 2020 Share Action, realtà che promuove una finanza responsabile, ha condotto un’indagine su 75 delle principali società di gestione del mondo rilevando come la maggior parte di queste non possieda un’adeguata due diligence in materia.
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