Economia / Attualità
La risposta alla guerra in Ucraina non è “più petrolio e più gas” ma “più rinnovabili”
Mentre il governo tedesco annuncia il momentaneo stop al contestato gasdotto Nord Stream 2, frutto dell’attività di lobby delle principali aziende europee dell’oil&gas, osservatori, attivisti e scienziati ribadiscono l’urgenza di investire sulla decarbonizzazione. La fine dei combustibili fossili è una “questione di sicurezza”
Poche ore prima che la Russia invadesse l’Ucraina, dichiarandole guerra, nella notte tra il 23 e il 24 febbraio, il cancelliere tedesco Olaf Scholz aveva annunciato il congelamento dell’autorizzazione per il controverso progetto Nord Stream 2, il gasdotto sottomarino progettato per raddoppiare la portata del Nord Stream 1 (inaugurato nel 2011) che permetterebbe di trasportare il gas russo direttamente in Germania evitando di attraversare il territorio ucraino. In passato il governo tedesco si era sempre mostrato riluttante a imporre sanzioni che avrebbero potuto colpire il progetto ma Scholz ha dichiarato che “la situazione di oggi è fondamentalmente diversa e quindi, alla luce dei recenti eventi, dobbiamo anche rivalutare la situazione […] anche per quanto riguarda Nord Stream 2.”
“Vale la pena ricordare da dove arriva quel progetto, ovvero da un’intensa attività di lobby, come ha evidenziato Corporate europe observatory (Coe)”, ha scritto a poche ore dalla conferenza di Scholz il giornalista Andy Rowell su Price of oil. Citando anche un tweet -inequivocabile- di Vicky Cann, campaigner di Coe: “Questo progetto non avrebbe mai dovuto essere nemmeno sviluppato”. In un report pubblicato nel giugno 2020, Corporate europe observatory aveva infatti messo sotto la lente d’ingrandimento il progetto Nord Stream 2, evidenziando come, sebbene il gasdotto fosse di proprietà di Gazprom (gigante energetico russo, parzialmente controllato dal Cremlino), il progetto fosse stato finanziato da cinque società europee: Uniper, Wintershall Dea, Shell, Omv ed Engie. Le stesse che avrebbero svolto un’intensa attività di pressione nei confronti del governo tedesco.
Il report aveva messo in evidenza come “nei tre anni precedenti al dicembre 2017, la lobby dell’industria del gas ha incontrato i rappresentanti del governo tedesco, spesso a livello ministeriale, almeno 62 volte, forse di più, per discutere di quel gasdotto. Ventotto incontri sono stati con i principali finanziatori del progetto, tra cui Gazprom, Uniper, Wintershall Dea, Shell, Omv ed Engie”. Per Corporate europe observatory e Lobby control la vicenda di Nord Stream 2 rappresenta quindi “un chiaro esempio della strettissima relazione tra il governo tedesco e l’industria del gas”. Una relazione che si è tradotta in clamorosi episodi di “porte girevoli”, tra cui quello di Gerhard Schröder, già cancelliere tedesco, che al giugno 2020 sedeva nei board di Nord Stream AG (la società che aveva costruito la prima pipeline) e della società petrolifera russa Rosneft.
L’annunciato stop al progetto Nord Stream 2 e il probabile taglio alle forniture di gas dalla Russia (che attualmente copre per il 40% il consumo di gas dei Paesi europei) costringerà i diversi Paesi a mettere in atto strategie alternative per garantire la produzione di energia. E non tutti gli scenari sono positivi. “Mentre i politici inglesi stanno chiedendo all’Europa di liberarsi della dipendenza dal gas russo, il governo di Londra ha chiesto di potenziare le trivellazioni nel Mare del Nord. E negli Stati Uniti il Petroleum institute sta chiedendo una maggiore esportazione di gas fossile liquefatto: entrambe queste risposte sono sbagliate”, ricorda Rowell.
“Il modo migliore per tutelare la nostra produzione energetica è accelerare gli investimenti in energie rinnovabili prodotte localmente e a prezzi accessibili”, ha scritto in un thread su Twitter Tessa Khan, fondatrice e direttrice dell’Ong ambientalista inglese Uplift, evidenziando come nel Regno Unito siano necessari in media 28 anni per mettere in attività un nuovo pozzo per l’estrazione di gas: “Un nuovo giacimento che ricevesse oggi la licenza a iniziare l’estrazione ci fornirebbe gas attorno al 2050 -segnala Khan-. Inoltre il gas del Mare del Nord è venduto a prezzi di mercato e, di conseguenza, ogni aumento di produzione, avrebbe un impatto minimo sui prezzi”. “La fine dei combustibili fossili e il passaggio alle energie rinnovabili è una buona scelta in termini di sicurezza nazionale, soprattutto a lungo termine”, ha twittato il climatologo della Nasa Peter Kalmus.
C’è però anche chi pensa che il conflitto in Ucraina possa fare da catalizzatore per gli sforzi di decarbonizzazione in atto nell’Unione europea, costringendo i governi a investire seriamente nelle energie rinnovabili e nell’elettrificazione. “Così come la crisi petrolifera degli anni Settanta ha innescato gli investimenti in energie rinnovabili e imposto standard nazionali sull’efficienza dei carburanti, allo stesso modo questa crisi potrebbe costringere l’Europa a investire a un ritmo molto più veloce sulle rinnovabili”, ha dichiarato Peter Sobotka, fondatore e CEO di Corinex, una società specializzata nel rendere le reti europee di distribuzione di energia più efficienti, in un’intervista pubblicata il 23 febbraio sul portale Market Watch.
Un ulteriore segnale arriverebbe dalle Borse: giovedì 24 febbraio l’European renewable energy index ha fatto segnare un più 9,3%, in netta controtendenza rispetto al crollo dei mercati finanziari europei, riporta Bloomberg. Che ha pubblicato anche un commento di Rob Barnett, analista di Bloomberg Intelligence, secondo cui i legislatori europei dovrebbero agire per ridurre la dipendenza del Continente dal gas russo e che le energie rinnovabili potrebbero rappresentare il percorso più veloce per tagliare l’uso del gas dall’industria elettrica.
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