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Diritti / Attualità

La storia di Abdul, evacuato da Kabul e finito nel Cpr di Gradisca d’Isonzo

Dopo l’arrivo in Italia a fine agosto 2021, il 22enne ha tentato di raggiungere la Francia ma è stato trasferito e trattenuto per 32 giorni nel centro per il rimpatrio. Gli è stata addirittura notificata l’espulsione. “Il caso non è isolato e non è un errore. È una macchina amministrativa che opera in modo cieco e seriale” denuncia Gianfranco Schiavone di Asgi

“Sono partito da Kabul per essere libero. In Europa e in Italia ho trovato la galera”. Abdul, 22 anni, nonostante una richiesta d’asilo presentata nel nostro Paese e l’evidente impossibilità di essere rimpatriato in Afghanistan è stato trattenuto per 32 giorni nel Centro per il rimpatrio (Cpr) di Gradisca. “Una storia che non è frutto di ‘un errore’ ma evidenzia come ci sono ‘non-luoghi’, dalle frontiere ai Cpr, in cui le norme di legge che tutelano i diritti inviolabili delle persone sono totalmente disapplicate”, spiega Gianfranco Schiavone, presidente del Consorzio italiano di solidarietà (Ics) e socio dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi).

Nei giorni successivi al 15 agosto 2021, dopo l’ingresso a Kabul dei Talebani, Abdul si sposta con la famiglia verso la capitale per raggiungere l’aeroporto. Dopo circa quattro giorni riesce a far ingresso nel gate senza i suoi famigliari. È un giovane a “rischio”: dopo la morte di suo padre, nell’agosto 2020, Abdul ha preso il suo posto come combattente del gruppo resistente di Massoud, nella regione del Panshir. Il 26 agosto 2021 atterra a Roma Fiumicino. “Una volta scesi ci hanno preso le impronte e siamo stati portati a Settimo Torinese per fare la quarantena -spiega-. Io ho lasciato subito il centro perché volevo raggiungere mio fratello maggiore che vive a Londra”. Da Oulx, cittadina in alta Val Susa, Abdul dopo due respingimenti subiti al confine italo-francese riesce a passare. Si sposta verso Parigi dove lo aspetta un amico con cui raggiunge Burbure, Comune francese non distante da Calais, il luogo da cui migranti e richiedenti asilo tentano la traversata della Manica. “Ho provato diverse volte -racconta-. Una sera la polizia mi ha fermato e vedendo che mi avevano preso le impronte in Italia mi ha trasferito a Rennes, in un centro di detenzione”. È fine settembre quando il giovane è trattenuto. “Mi hanno detto che sarei rimasto lì fino al 6 dicembre: se non fossero riusciti a trasferirmi mi avrebbero liberato. Ho fatto sette udienze: durante la prima ho detto che non volevo restare in Francia dalla seconda in poi sì. Ma non è cambiato nulla”.

Il 9 dicembre Abdul viene accompagnato su un aereo civile con destinazione Venezia: “Avevo due poliziotti al mio fianco e le manette ai polsi per tutto il viaggio -continua-. Una volta arrivato in aeroporto, i poliziotti italiani mi hanno detto che avrei dovuto fare un mese di quarantena e mi hanno portato in un altro centro”. Abdul non capisce subito in quale luogo si trovi. Contatta il cugino, in Italia da diversi anni, che cerca di capire dove sia. “Non era chiaro dove fosse. Le comunicazioni erano molto difficili, anche perché aveva il cellulare per pochissimo tempo durante il giorno. Raccontava di avere compagni di stanza che parlavano arabo e ci ha inviato una posizione su Google maps con cui abbiamo ricostruito il luogo”, spiega Martina Cociglio, operatrice legale di Diaconia Valdese a Oulx.

Il luogo è il Cpr di Gradisca d’Isonzo. Pochi giorni dopo il suo arrivo nel centro, il giudice di pace convalida il trattenimento. “Sono rimasto per 26 giorni senza poter uscire -spiega Abdul-. Per due settimane ho dormito in una stanza con 13 persone. Era chiusa, le prime sere la finestra era rotta, non c’era riscaldamento e avevamo poche coperte. Non potevo spegnere la luce della stanza: delle sere veniva ‘spenta’ dagli operatori a mezzanotte, altre all’una, altre alle due. C’erano due bagni, piccoli, in corridoio. Non ho avuto nessun cambio per tutto il mese. A differenza che a Rennes, non potevo lavarmi i vestiti”. Al Cpr di Gradisca d’Isonzo è concesso utilizzare il proprio telefono ma in regime di quarantena è la struttura che ne fornisce uno che gli ospiti possono poi consultare a rotazione. Attraverso questo cellullare Abdul nomina l’avvocato che chiede un’udienza al giudice per farlo rilasciare. L’8 gennaio 2021 Abdul è libero dopo più di tre mesi di trattenimento, tra Francia e Italia.

Durante l’udienza di convalida all’avvocata Caterina Bove, socia di Asgi, viene mostrato un “foglio-notizie” in cui viene riportato che Abdul non voleva chiedere protezione internazionale in Italia. “È stato compilato a Venezia -spiega Bove- ed è un foglio attraverso il quale le persone dovrebbero dichiarare se vogliono chiedere asilo, se sono sul territorio per cercare lavoro o per motivi familiari ma il cui significato e la cui importanza non vengono compresi dagli stranieri se, come nel caso di Abdul, viene loro chiesto di sottoscriverlo senza spiegazioni e senza l’assistenza di un interprete. Spesso le persone non capiscono l’importanza delle risposte date, soprattutto in una lingua che non comprendono. Abdul dichiara di non ricordarsi che cosa ha firmato”.

Nel fascicolo presentato davanti al giudice che doveva decidere sul suo rilascio non c’è traccia di come Abdul sia arrivato in Italia né della sua storia e del suo vissuto in Afghanistan. “Nessuno ha preso atto che era un richiedente asilo, che era già stato accolto in un centro. Oltre il fatto che era stato evacuato dalle autorità italiane da Kabul. Sarebbero bastate poche domande per far sì che venisse accolto in un Centro di accoglienza e non destinato in un Cpr”, osserva Bove. Un testacoda delle autorità italiane che notificano un foglio di espulsione a un cittadino afghano, richiedente asilo, dopo averlo evacuato. “Una situazione assurda e paradossale ma che ci dimostra come siano procedure ‘meccaniche’. Nessuno si è fatto troppi scrupoli, o domande”.

Procedure in cui Abdul diventa “invisibile” e parte di un ingranaggio che nessuno blocca. “La legge è valutazione caso per caso alla luce di norme, tra cui i divieti di inespellibilità che vanno applicati nella loro interezza e complessità -spiega Schiavone-. Non è così. Polizia di frontiera, prefetto, questura di Gorizia, giudice di pace: tutti ritenevano, evidentemente, di poter espellere e persino trattenere per eseguire l’espulsione, un cittadino afghano, mentre ciò è tassativamente proibito dai divieti di espulsione configurati dall’articolo 19 del Testo unico immigrazione come novellato dalla legge 173/2020 che ha riformato i cosiddetti ‘decreti sicurezza’. Quello che emerge è una macchina amministrativa che opera in modo cieco e seriale, come in una sorta di  ‘banalità del male’, nella quale nessuno dei diversi attori fa il suo piccolo pezzo, apparentemente neutro, senza porsi alcun interrogativo sulle conseguenze finali: la storia di Abdul non è figlia di un errore ma evidenzia che il sistema non è in grado di bilanciare le finalità di eseguire le espulsioni con la tutela dei diritti fondamentali della persona, in primo luogo con il rispetto dei divieti di allontanamento”.

In tal modo la legge che si perde nel “buio” dei non luoghi, dalle frontiere ai Cpr, come raccontato anche su Altreconomia, in cui il diritto resta solo proclamato sulla carta. “In Italia da troppi anni esistono delle zone franche nelle quali il sistema di diritto svanisce, non monitorate da nessuno e che sono in sostanza fuori controllo. La norma prevede che all’interno del Cpr dovrebbero essere garantiti adeguati servizi legali e che il trattamento della persona deve rispondere a standard adeguati e comunque nel rispetto della dignità della persona. Che così non avvenga emerge dai continui e sconcertanti episodi che caratterizzano tutti i Cpr italiani da anni”.

Abdul è rimasto 32 giorni con gli stessi vestiti senza possibilità di cambiarsi o lavare gli indumenti. “La cosa non mi sorprende affatto -conclude Schiavone-. Siamo di fronte a situazioni che dovrebbero essere ricondotte a forme di trattamento inumano e degradante proibite dalla normativa italiana ed europea: situazioni non episodiche ma diffuse e probabilmente sistematiche sulle quali la magistratura dovrebbe iniziare ad indagare perché sono in gioco diritti fondamentali. Ma nessuno sembra volere scoperchiare questo coperchio perché non si saprebbe più come richiuderlo”.

Sono migliaia le persone trattenute ogni anno nei dieci Cpr attivi in Italia. Secondo lo studio “Buchi neri” della Coalizione italiana libertà e diritti civili (Cild) la capienza complessiva è di 1.100 posti e il costo totale di gestione dei centri dal 2018 al 2021 è stato di 44 milioni di euro. Sette sono i morti negli ultimi due anni in luoghi in cui le persone camminano sull’orlo di un burrone.

Abdul è libero e ora proseguirà con il suo percorso d’asilo solo grazie a “incontri fortuiti”. “Se non avesse avuto un cugino in Italia che si è attivato probabilmente ora sarebbe ancora trattenuto. Nessuno sa per quanto tempo non si sarebbero accorti di lui”, riflette Bove. La fortuna detta legge.

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