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A 25 anni dall’inizio dell’assedio Sarajevo prova a uscire dal tunnel
Le tre entità della Bosnia -croata, musulmana e serba- faticano ancora a trovare un terreno comune dal quale ripartire. E fatti distanti anche un secolo viziano qualunque pacificazione. Reportage dalla città ferita
A venticinque anni dall’inizio della guerra in Bosnia e dell’assedio di Sarajevo, creare un terreno di incontro tra le diverse memorie del conflitto è la cosa più difficile che si possa immaginare. Il teatro è forse l’unico luogo all’interno del quale è stato fatto un piccolo passo al di là dei reciproci steccati. Il MESS, il più antico festival teatrale dei Balcani, è ormai giunto alla sua 56esima edizione. Nato nel 1960 sotto la vecchia Jugoslavia, non si è arrestato neanche negli anni dell’assedio, tanto che nell’agosto del 1993 fu mandato in scena uno straordinario “Aspettando Godot” diretto da Susan Sontag. Oggi continua a definirsi uno spazio “alternativo, progressista, antifascista”. Sulla locandina dell’edizione 2016 la scritta MESS era sovrastata dai capelli rossi dell’allora candidato repubblicano alla Casa Bianca Donald Trump, pettinati all’indietro.
1.425 giorni, tanto durò l’assedio della città di Sarajevo tra il 5 aprile 1992 e il 29 febbraio 1996
Basta citare due degli spettacoli visti a inizio ottobre, per capire come il festival sia effettivamente uno dei pochi baluardi della terra di mezzo. Il primo è “Patrioti” del regista belgradese Andras Urban: un’autocritica feroce delle radici ottocentesche dal nazionalismo serbo che a Belgrado gli ultranazionalisti hanno più volte provato a bloccare. A Sarajevo è andato regolarmente in scena. Il secondo è “La nostra violenza e la vostra violenza” del bosniaco Oliver Frljic, l’enfant terrible del teatro balcanico, che mette in relazione la violenza delle guerre e dei terrorismi dei giorni nostri con quella degli anni 90. “Quando abbiamo cominciato a credere di essere i signori della verità e che il nostro Dio fosse più potente del Dio degli altri?”, si domanda Frljic. La Chiesa cattolica bosniaca ha fatto pressioni sul governo perché lo spettacolo, ritenuto offensivo, non andasse in scena. Temendo disordini, la sera della prima un cordone di polizia cingeva le scale del Teatro nazionale. Alla fine lo spettacolo non è stato bloccato, ma l’indomani il governo cantonale ha annunciato l’istituzione di una commissione d’inchiesta sul lavoro del MESS. Per il primo ministro del Cantone di Sarajevo Elmedin Konakovic “Sarajevo non si merita un simile circo”.
Nel settembre scorso, Elmedin Konakovic ha annunciato che gli alunni di tutte le scuole avrebbero dovuto studiare “l’aggressione contro la Bosnia Herzegovina e i crimini commessi durante la guerra”. Ma nella Bosnia del XXI secolo, sostanzialmente divisa tra le tre entità croata, musulmana e serba (le prime due raccolte nella Federazione croato-musulmana, la terza costituita dalla Republika Srpska), una frase del genere non è affatto innocua. Il punto su cui va a sbattere ogni tentativo di creare un programma scolastico minimamente condiviso tra le tre entità è proprio l’insegnamento della storia. Quella che per Konakovic è stata un’aggressione costituita da una serie di crimini contro civili inermi culminata nel genocidio di Srebrenica (luglio 1995), per i leader della Republika Srpska come Milorad Dodik è stata invece una “guerra civile”, combattuta da due parti contrapposte, che si sono macchiate delle medesime colpe.
Ogni tentativo di creare una commissione tripartita per varare dei testi che includessero il punto di vista degli altri è sistematicamente saltato nell’ultimo ventennio. Il risultato è che nei dodici distretti in cui è divisa oggi la Bosnia si adottano dodici programmi scolastici differenti.
Ne parlo con il generale Jovan Divjak nel suo ufficio, una stanza tinta di arancione in una palazzina che sorge al di fuori del centro di Sarajevo. Divjak è un eroe di guerra. Di origini serbe, è stato lui a organizzare e guidare la difesa della città assediata. Nel suo studio conserva ancora le foto che lo ritraggono in divisa militare. Oggi è un ottantenne atletico che indossa jeans e camicie a quadretti. Guida una piccola associazione che si chiama “Education Builds Bih”: il suo obiettivo è favorire l’inserimento dei bambini disagiati (“Tutti i bambini. Anche i serbi, anche i rom…”, mi dice) nei percorsi scolastici. In vent’anni di vita l’associazione ha aiutato oltre duemila ragazzi. D’estate, poi, organizza campi estivi che sono tra i pochi reali momenti di condivisione per le nuove generazioni appartenenti ai tre diversi gruppi.
Divjac non nutre molta fiducia nelle dichiarazioni del primo ministro. Gli sembrano riproporre lo stesso modo di vedere le cose dei partiti di maggioranza delle tre rispettive entità: “Tutti e tre vedono solo i crimini degli altri, non i propri. Dichiarazioni come queste non tendono alla riconciliazione e alla tolleranza.” Divjak si dice pessimista perché questo reciproco arroccarsi nel proprio orto non si limita alla guerra degli anni novanta, ma si estende all’intero Novecento. Lo stesso Gavrilo Princip (che nel 1914 sparò contro l’arciduca Francesco Ferdinando proprio sul lungofiume che taglia in due la città) è visto come un eroe dai serbi di Bosnia, e come un nazionalista esaltato dai croati e dai bosniaci musulmani. “Forse ci vorranno settant’anni per fare qualcosa di simile a quei manuali di storia condivisa che anno fatto in Alto Adige/Sudtirolo. Ma qui la situazione è ancora più complicata: trovare un terreno di incontro tra tre parti è molto più difficile che tra due.”
Anche Andrea Rizza Goldstein della Fondazione Langer di Bolzano, tra i maggiori conoscitori italiani della città, la pensa così: “Recentemente con il gruppo Adopt Srebrenica abbiamo provato a documentare delle storie di ordinary heroes, di serbi che durante la guerra avevano aiutato i musulmani, ma pur avendole scovate non siamo riusciti a farcele raccontare dai protagonisti. Troppe pressioni, troppa paura. Non è concesso nessuno spazio alle narrative che escono dalla versione ufficiale”.
La pianta urbana di Sarajevo restituisce pienamente queste ferite. Capita, ad esempio, al termine di uno stradone che lambisce la periferia ancora segnata dalla guerra di ritrovarsi a Sarajevo Est. Non si è passati attraverso alcun check point, eppure tutte le insegne sono improvvisamente in cirillico, la polizia indossa divise diverse, alle finestre spuntano delle bandiere serbe e sulle pareti non c’è un solo graffio delle bombe di ieri. Si è già nella Republika Srpska, che non ha niente a che fare con il Cantone di Sarajevo.
Alle spalle dell’aeroporto sorge il Museo del Tunnel. Progettato nell’estate del 1992 da un ingegnere allora 35enne, Nedzad Brankovic, permise negli anni di assedio di rompere l’isolamento della città: migliaia di persone riuscirono a fuggire e la città a rifornirsi di viveri. Alto un metro e sessanta e largo non più di uno, il tunnel correva per circa 800 metri sotto la pista dell’aeroporto, per poi sfociare sotto l’unico tratto di montagne intorno alla città non controllato dall’esercito serbo.
Ogni tentativo di creare una commissione tripartita per varare dei testi che includessero il punto di vista degli altri è sistematicamente saltato nell’ultimo ventennio
Nei pressi del punto d’uscita è sorto un museo. Dapprima organizzato privatamente dalla famiglia Kolara, nella cui cantina il tunnel sbucava, è poi passato sotto il controllo del Cantone di Sarajevo. Oggi se ne possono percorrere una ventina di metri scarsamente illuminati. Accanto al percorso è possibile visitare tre stanze che ne ricostruiscono la storia e altre tre in cui vengono proiettati dei video dell’epoca. Molti visitatori sono arabi provenienti dai Paesi del golfo, gruppi con bambini e donne velate, per i quali il Tunnel rappresenta una sorta di memoriale della “resistenza islamica”, come si può leggere dai commenti lasciati sul quaderno delle visite. Del resto, grazie anche agli investimenti sauditi, oggi a Sarajevo ci sono oltre 120 moschee. Prima della guerra erano 80.
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