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Rana Plaza, 11 anni dopo. In Bangladesh persistono le cause della tragedia

Il Rana Plaza dopo il crollo © Sudipta06 - Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=25801152

Il 24 aprile 2013 ha segnato la peggiore tragedia dell’industria della moda: il crollo dell’edificio uccise infatti 1.138 persone. “Il catastrofico bilancio è stato determinato da un mix letale di fattori legato ai grandi marchi -osserva la Campagna Abiti Puliti-: aver ignorato le condizioni pericolose delle fabbriche, i salari da fame e aver limitato la capacità dei lavoratori di organizzarsi collettivamente”

A 11 anni dal crollo del Rana Plaza, a Dacca, in Bangladesh, la più grave tragedia del mondo della moda che ha causato oltre mille vittime tra i lavoratori del settore, le grandi aziende se da un lato hanno applicato misure efficaci per garantire la sicurezza delle fabbriche dall’altro non sono ancora riuscite ad affrontare le vere cause della tragedia. L’elevato numero di vittime del crollo, secondo la Campagna Abiti Puliti, sarebbe dovuta infatti non solo alla mancanza di misure di sicurezza ma anche ai salari bassi e alla mancanza di una rappresentanza sindacale, fattori che hanno esercitato una coercizione indiretta sui lavoratori costringendoli a recarsi nelle fabbriche nonostante il rischio crollo.

Il Rana Plaza, edificio che ospitava diversi negozi e cinque fabbriche tessili, è crollato il 24 aprile del 2013 causando la morte di 1.138 persone e il ferimento di circa 2.500, in gran parte lavoratori del settore. “Mentre i negozi al piano terra sono rimasti vuoti quel giorno, le fabbriche si sono rifiutate di fermarsi e hanno costretto i lavoratori e le lavoratrici a entrare con la minaccia di trattenere i salari. Lottando per sopravvivere con paghe da fame e senza un sindacato che difendesse collettivamente i loro diritti, la maggior parte di loro è entrata in fabbrica -ricorda Abiti Puliti-. Una catastrofe prevedibile e prevenibile. I marchi erano a conoscenza della pericolosità degli edifici a più piani in tutto il Bangladesh, ma non sono mai intervenuti. Sapevano anche che la coercizione implicita nei salari di povertà limitava fortemente le scelte dei lavoratori e, soprattutto, che gli ostacoli al diritto di organizzarsi lasciavano i lavoratori e le lavoratrici esposti a gravi rischi”.

Sindacati e attivisti avevano denunciato per più di un decennio le pericolose condizioni delle fabbriche tessili dal Paese, chiedendo alle aziende di firmare un accordo vincolante per la sicurezza. A tre settimane dal disastro un gruppo di brand del settore ha poi sottoscritto l’Accordo internazionale per la salute e la sicurezza nell’industria tessile e dell’abbigliamento. “Questo accordo e quelli successivi sono il motivo per cui il Bangladesh, che prima del 2013 registrava spesso numerose vittime nelle fabbriche tessili, non ha più vissuto disastri simili -riporta Abiti Puliti-. Miglioramenti che vanno dall’installazione di attrezzature antincendio alla rimozione dei lucchetti alle porte, fino a ristrutturazioni su larga scala di edifici insicuri, oltre alla formazione dei lavoratori sul tema della sicurezza e a un meccanismo di reclamo, hanno portato un cambiamento concreto, soprattutto nei primi sette anni di applicazione dell’Accordo, prima, cioè, che i datori di lavoro iniziassero a esercitare un’influenza indebita sul programma”. L’Accordo è stato sottoscritto da oltre 200 aziende tra cui alcuni dei marchi più grandi e noti come H&M, Uniqlo, Inditex (Zara) e Pvh (Calvin Klein). Tuttavia ci sono ancora grandi nomi che continuano a nascondersi dietro audit condotti in modo non trasparente e senza la partecipazione dei rappresentanti dei lavoratori. Tra questi si trovano Levi’s, Ikea, Decathlon, Walmart, Amazon e Columbia Sportswear.

“Il rifiuto di marchi come Levi’s e Ikea di firmare l’Accordo significa che sono disposti a rischiare la vita dei lavoratori i loro prodotti. Continuando a fare affidamento sugli stessi sistemi che non sono riusciti a prevenire il crollo del Rana Plaza -ha affermato Amin Amirul Haque, presidente della National garment workers federation (Ngwf), sindacato di lavoratori del settore tessile del Bangladesh-. È una vergogna, così come è vergognoso che ci siano circa una dozzina di marchi che hanno fabbricato i loro prodotti nel Rana Plaza e non hanno mai pagato alcun risarcimento alle famiglie dei 1.138 lavoratori uccisi e degli oltre 2.500 feriti”.

Tuttavia, come spiegato in precedenza, il disastro del Rana Plaza non è stata causato solamente da lacune nella sicurezza. Lavoratrici e lavoratori tessili sono stati costretti a recarsi sul luogo nonostante il rischio crollo, dalla minaccia di perdere i loro già bassi salari. L’ultimo processo di revisione del 2023, altamente antidemocratico, ha portato a un nuovo salario minimo di 113 dollari, poco più della metà di quanto richiesto dai sindacati sulla base del calcolo del costo della vita. I sindacati e i rappresentanti dei lavoratori hanno contattato i brand per chiedere di fare pressione sui datori di lavoro chiedendo di pagare di più i fornitori in modo da favorire un aumento dei salari, ottenendo in risposta solo impegni vaghi e insufficienti.

Nell’ottobre dello scorso anno, quando i datori di lavoro hanno condiviso una proposta inaccettabile, in tantissimi sono scesi in piazza. I dipendenti che protestavano e quelli che non avevano intenzione di farlo sono stati accolti da una repressione violenta e dall’uso arbitrario della forza, che ha causato quattro morti e molti altri feriti. I quattro lavoratori rimasti uccisi (Rasel Howlader, 26 anni, Jalal Uddin, 40 anni, Anjuara Khatun, 23 anni, Imran Hossain, 32 anni) producevano per marchi internazionali come H&M, Zara e Walmart. Nonostante nel 2018 delle proteste analoghe avessero portato a feriti e vittime tra i manifestanti, le grandi aziende non hanno fatto alcuna pressione, forti del loro potere contrattuale, per evitare che questa repressione si ripetesse o per convincere i fornitori a ritirare la cause intentate contro i lavoratori e i rappresentanti dei sindacati.

Il Parlamento europeo dovrebbe votare, proprio il 24 aprile, la Direttiva sulla due diligence per la sostenibilità aziendale. Se approvata, la norma obbligherà le aziende a effettuare un controllo sulla propria catena di produzione, compresi i fornitori indiretti, per eventuali violazioni dei diritti dei lavoratori. Violazioni per cui, in alcuni casi, potrebbero venire considerate responsabili. Anche se la legislazione proposta riguarderà solo le più grandi aziende attive nell’Ue, è comunque un passo importante per rendere i marchi responsabili del loro impatto nelle catene globali del valore e contribuirà a prevenire il verificarsi di nuovi disastri.

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