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Finanza / Opinioni

La battaglia dei dazi e la fine del compromesso mondiale del capitalismo finanziario

© Renaldo Matamoro - Unsplash

Gli Stati Uniti vogliono mantenere a ogni costo il dollaro come unica moneta globale, dando ai grandi fondi poteri assoluti nel monopolizzare il risparmio gestito e utilizzando gli investimenti pubblici per battere la Cina, ostacolata alle dogane. Una strategia aggressiva che ha una vittima certa (l’Europa) e un’incognita (Pechino). L’analisi di Alessandro Volpi

Il tema del protezionismo sembra destinato a diventare ancora più decisivo di quanto non lo sia già stato negli ultimi mesi. Gli Stati Uniti stanno introducendo alti dazi doganali nei confronti dei prodotti cinesi e la corsa a ergere barriere accomuna Joe Biden e Donald Trump. Tali dazi servono all’economia americana a limitare la propria assoluta dipendenza dalla finanziarizzazione e a contenere l’ormai evidente supremazia produttiva cinese.

Il caso di Nvidia è emblematico. La società che si occupa di intelligenza artificiale ha registrato una trimestrale con profitti per 14 miliardi di dollari. Si tratta di un gran risultato subito indirizzato a beneficio dei suoi principali azionisti -Vanguard e BlackRock- che avranno un dividendo del 150%. Il dato impressionante però è costituito dal fatto che le azioni di questa società, che ha una capitalizzazione di 2.400 miliardi di dollari, presentano un prezzo stellare: il rapporto tra prezzo e utile è di 73,5, più di tre volte la mediana. È evidente che il costo delle azioni risulta decisamente gonfiato rispetto agli utili reali. Ennesimo e chiaro esempio della finanziarizzazione sganciata in larga misura dall’economia reale.

Per far rinascere il sistema produttivo statunitense -e ridurre quindi i contorni della bolla- è indispensabile però l’intervento pubblico che, in effetti, sta assumendo proporzioni enormi a partire dall’Inflation reduction act. Si tratta di migliaia di miliardi di dollari indirizzati alle imprese americane finanziati con un debito federale gigantesco e in continua ascesa; un simile debito è sostenibile, tuttavia, solo a due condizioni. La prima è rappresentata dal fatto che i risparmi dell’intero Pianeta vadano verso gli Stati Uniti e a questo compito provvedono i grandi fondi, a cominciare dai già ricordati Vanguard e State Street. 

La seconda è costituita dalla permanenza del dollaro come unica valuta internazionale che consente una lievitazione del debito senza imporre tasse e senza svalutazione. Dunque, lo schema del capitalismo americano è chiaro: mantenere a ogni costo il dollaro come unica moneta globale, dare ai grandi fondi poteri assoluti nel monopolizzare il risparmio gestito così da far lievitare i valori di Borsa e da comprare il debito Usa, a cui si mantengono tassi alti, e usare gli investimenti pubblici, coperti dal debito federale, per battere la Cina, ostacolata con i dazi. 

Siamo di fronte a una politica assai aggressiva che ha una vittima certa e una colossale incognita. La vittima certa è l’Europa a cui i grandi fondi, come accennato, vogliono sottrarre il risparmio gestito e che, “obbligata” da una Commissione europea debole, a seguire la strategia degli alti tassi e dei dazi, avrà enormi difficoltà nel rigenerare il proprio sistema produttivo, ma anzi sarà costretta proprio dagli alti tassi e dai dazi a politiche di rigore suicida. 

L’esito delle elezioni europee sembra infatti molto esplicito in tal senso. Le urne hanno prodotto il rialzo dei rendimenti di tutti i titoli di debito degli Stati europei, con conseguente aumento del costo degli interessi sui bilanci pubblici. Ciò significherà un’ulteriore riduzione della spesa pubblica e un inevitabile trasferimento di servizi essenziali al settore privato, senza spazio, peraltro, per alcuna politica industriale vera.

Nel frattempo si assiste all’indebolimento dell’euro rispetto al dollaro che ha già indotto la presidente della Banca centrale europea, Christine Lagarde, con un’incredibile solerzia, ad annunciare che le strategie monetarie continueranno a essere restrittive con buona pace dell’economia produttiva. In questo quadro, la Francia diventa l’epicentro di un terremoto finanziario, già annunciato -guarda caso- dal declassamento da parte delle agenzie di rating.

L’incognita colossale è rappresentata dalla Cina che difficilmente accetterà di subire i dazi degli Stati Uniti e la ricostruzione di una concorrenza industriale continuando ad adoperare il dollaro come propria moneta. Il compromesso mondiale del capitalismo finanziario sta per finire?

Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento

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