Diritti / Attualità
Hotspot Italia: i diritti dei rifugiati violati nei centri di identificazione
L’Unione europea ha chiesto all’Italia di usare la “mano dura” nei confronti dei rifugiati e dei migranti. Risultato: espulsioni illegali, maltrattamenti e torture. Lo rivela un rapporto reso pubblico da Amnesty International
Aumento delle violazioni dei diritti umani, detenzioni prolungate e arbitrarie, ricorso all’uso delle forza fisica per raccogliere le impronte digitali e inflizione di trattamenti inumani e degradanti. A un anno dal suo avvio, l’”approccio hotspot” per la gestione dei migranti in Europa mostra la sua natura. Che sarebbe contraria al diritto internazionale. A denunciarlo è Amnesty International nelle 61 pagine del rapporto “Hotspot Italia”. Una fotografia di come le politiche dell’Unione europea abbiano portato l’Italia ad “attuare in modo aggressivo elementi repressivi” all’interno dei centri per l’identificazione, lo screening e la prima assistenza dei rifugiati e dei migranti appena arrivati (hotspot). Quelli operativi sono a Lampedusa, Pozzallo, Trapani e Taranto, per una capienza dichiarata di 1.600 posti.
Nel 2014, 170mila persone hanno compiuto la traversata e 3.186 sono morte; nel 2015, 153mila hanno compiuto la traversata e 2.794 sono morte; e oltre 153mila persone hanno compiuto la traversata e 3.252 sono morte al 24 ottobre 2016 (Amnesty International)
L’organizzazione ha condotto quattro missioni (da Roma a Ventimiglia, da Taranto a Como) e raccolto 174 interviste ad altrettanti migranti giunti nel nostro Paese nel 2016, di dieci diverse nazionalità. Le testimonianze contenute nel rapporto -che danno conto di duri pestaggi, umiliazioni sessuali e percosse- sono il frutto di una precisa scelta assunta nel 2015 della Fortezza Europa. Si tratta dell’obiettivo del 100% dei rilevamenti delle impronte digitali dei rifugiati e migranti, raccomandato all’Italia dalla Commissione europea anche attraverso “l’uso della forza per ottenere le impronte”.
Hamid, sudanese di 19 anni, ha vissuto sulla pelle i risultati di questa strategia. Dopo essere sbarcato in un porto siciliano del quale non sapeva il nome, ha raccontato ad Amnesty, sarebbe stato portato con un autobus nel centro vicino, a 20 minuti di distanza. “Là, poiché si rifiutava di dare le impronte digitali, lo hanno preso con la forza: ‘Sei poliziotti sono venuti a prelevare ognuno di noi per portarlo in una stanza dove prendevano le impronte digitali. Ho detto che non volevo, quindi due mi hanno preso per le gambe e due ai fianchi e altri due mi hanno preso le mani per spingerle dentro la macchina. Mi tenevano stretto e sono riusciti a prendermi le impronte digitali’”.
Oltre all’uso della forza e ai maltrattamenti, il sistema degli hotspot prevede un altro passaggio contestato: lo screening. Le autorità di polizia e Frontex si occupano di condurre “interviste iniziali di screening” e di inserire in un modello ad hoc le informazioni raccolte, ovvero le generalità e “la motivazione che ha indotto la persona a lasciare il suo paese”. È una procedura decisiva per le vite dei migranti che si consuma in un momento sbagliato. Secondo Amnesty, infatti, lo screening ha “luogo subito dopo l’arrivo delle persone nell’hotspot, di giorno come di notte, oppure nel porto stesso se gli sbarchi non avvengono in prossimità di un hotspot, anche a solo pochi minuti dallo sbarco. Ciò significa che alle persone viene fatta una domanda dalle implicazioni potenzialmente decisive subito dopo la terrificante esperienza che una traversata via mare spesso comporta, con naufragi che ogni anno costano la vita a migliaia di persone, tra uomini, donne e bambini, e questo solitamente dopo drammatici mesi trascorsi in Libia, dove rifugiati e migranti subiscono detenzione arbitraria, rapimenti, tortura e stupro in modo sistematico e diffuso”.
Lo shock vizia qualunque dialogo informato. “Non sapevo neanche come ero arrivata qui, piangevo… c’erano tantissimi poliziotti, mi sono spaventata. La mia mente era da un’altra parte, non ricordavo neppure il nome dei miei genitori”, ha raccontato una donna di 29 anni proveniente dalla Nigeria ad Amnesty International.
“Le autorità italiane dovrebbero accelerare gli sforzi, anche sul piano legislativo, per fornire un quadro giuridico più solido ai fini dello svolgimento delle attività presso i punti di crisi [hotspot], in particolare per consentire l’uso della forza e prevedere disposizioni in materia di trattenimento a più lungo termine nei confronti dei migranti che rifiutano di fornire le impronte digitali. L’obiettivo del 100% dei migranti in ingresso sottoposti a rilevamento delle impronte va raggiunto senza ulteriori indugi” (Commissione europea, Relazione sull’attuazione dei punti di crisi in Italia, 15 dicembre 2015)
La risposta dell’Unione europea è un atto di forza interno o demandato ad altri Stati incaricati di tutelare a distanza i confini del continente. È il caso degli accordi bilaterali stipulati dai Paesi europei “anche con governi responsabili di orribili atrocità, come quello sudanese”. Uno di questi è stato firmato nell’agosto 2016 tra i vertici della polizia di Italia e Sudan. “Consente procedure d’identificazione sommarie -spiega Amnesty alla luce dei fatti accaduti il 24 agosto di quest’anno con il rimpatrio di 40 cittadini sudanesi- che, in determinate circostanze, possono essere espletate persino in Sudan a espulsione avvenuta”. “Invece di creare un sistema coraggioso e organizzato per fornire canali sicuri alle persone per cercare protezione in Europa e sostenere il rispetto e la difesa dei diritti umani nei Paesi dove conflitti e persecuzioni inducono le persone a fuggire -si legge nell’introduzione del rapporto- i leader europei sono ricorsi a negoziati con i governi che violano i diritti umani per impedire a queste persone di arrivare”.
L’approccio è fallito, così come il “sistema di ricollocazione d’emergenza”, il lato sulla carta “solidale” della gestione dei flussi. A fine settembre 2016, su 131mila arrivi, solo 1.196 persone sono state ricollocate in altri Paesi europei dall’Italia.
Il report “Hotspot Italia” è concluso da una lunga lista di raccomandazioni rivolte alle autorità italiane, europee e all’Agenzia Frontex. Tra i primi destinatari dovrebbe esserci anche il ministro dell’Interno Angelino Alfano. Che non ha mai risposto ad alcuna delle lettere di Amnesty International.
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