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Esteri / Intervista

Destre rabbiose, limiti dei progressisti e futuro della democrazia in America Latina

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Dal golpe alla Moneda al nuovo ordine globale. Dove sta andando l’America Latina? Ne abbiamo parlato con Alfredo Luis Somoza, tra le voci più interessanti sul continente. Nel suo ultimo libro ha raccolto infatti quarant’anni di lavoro e di preziosi racconti al pubblico italiano. Dando alla cronaca un profondo significato storico

Javier Milei in Argentina, Luiz Inácio Lula da Silva in Brasile, elezioni in molti Paesi, narcotraffico che si sostituisce allo Stato. Dove sta andando l’America Latina? Ne abbiamo parlato con Alfredo Luis Somoza, una delle voci più interessanti sul continente, a partire dal suo ultimo libro, “Mezzo secolo di America Latina. Dal golpe alla Moneda al nuovo ordine globale” (edizioni Rosenberg & Sellier). Un testo che raccoglie quarant’anni di lavoro di un italoargentino che ha raccontato l’America Latina al pubblico italiano. Un lavoro eclettico, che si avvale degli attrezzi di vari mestieri: le interviste del giornalista, la prospettiva dello storico, lo sguardo del viaggiatore, i filtri dell’analista geopolitico. Il libro di Somoza ha il pregio di mescolare la cronaca con la prospettiva di lungo periodo, unire i fili degli eventi per svelarne il senso storico.

Somoza, partiamo dall’attualità. Si dice super-ciclo elettorale per riferirsi al 2024 dell’America Latina, con sei elezioni presidenziali (Messico, El Salvador, Venezuela, Repubblica Dominicana, Uruguay e Panama), importanti elezioni locali in Cile, Costa Rica e Brasile. C’è un denominatore comune tra queste elezioni?
ALS Come in Europa, anche in America Latina vincono le opposizioni (dal 2018, in nessun Paese, eccetto Paraguay e Nicaragua, hanno vinto i governi uscenti, ndr). Il caso più eclatante è la vittoria di Milei in Argentina, un voto contro il governo peronista. Il Messico dovrebbe essere un’eccezione, con la riconferma del partito di governo di centrosinistra, e l’elezione di Claudia Sheinbaum, la sindaca della capitale. C’è poi l’Uruguay -governato da un centrodestra moderato, dopo 15 anni di governi di centrosinistra del Frente Amplio- da osservare per capire se nei Paesi con democrazie più stabili vale la regola che premia l’opposizione. Purtroppo non sapremo che cosa succede in Venezuela, dove le elezioni sono truccate in partenza. Ma i venezuelani hanno già votato con i piedi, un quarto della popolazione ha abbandonato il Paese. In Repubblica Dominicana conterà molto l’effetto della crisi haitiana. Nelle elezioni locali potrebbe esserci un recupero delle posizioni più centriste.

Abbiamo visto negli ultimi tempi un’ascesa delle destre estreme. Nel libro si parla dei “nipotini di Pinochet” per indicare la destra cilena odierna.
ALS Il leader dei repubblicani cileni, José Antonio Kast, si definisce nostalgico di Pinochet. C’è una destra emergente, in Ecuador, Colombia, Brasile, che ha rotto il monopolio delle destre conservatrici e ha vinto grazie al consenso di leader forti, come Jair Bolsonaro. È una destra rabbiosa, ha reintrodotto una dimensione ideologica, nostalgica delle dittature militari degli anni 1970. Un grado di ideologia che non troviamo a sinistra.

E il presidente argentino, Milei, qual è il bilancio dopo i primi mesi di governo?
ALS Non credo sarà un ciclo politico veloce. Ci sono due Milei, quello con problemi di salute mentale, che follemente mette a rischio le relazioni con Paesi vicini per polemiche ideologiche; c’è poi il Milei che ha portato in pareggio il bilancio dello Stato, ha stoppato l’emissione di moneta, accumulato riserve nella Banca centrale, ridotto l’inflazione. Certo, la situazione sociale è terrificante, ma la povertà al 40% l’ha lasciata il governo peronista. Dietro Milei avanzano altre forze, come la ministra dell’Interno che vuole imporre un modello di sicurezza senza Stato di diritto, o la vicepresidente che prova a riscrivere la memoria storica dei tempi della dittatura. L’opposizione peronista è in imbarazzo, travolta dagli scandali di corruzione del governo uscente. Tra un anno si rinnovano le Camere, dove Milei è in minoranza. Il risultato dipenderà dall’andamento dell’economia e della lotta alla corruzione.

Riepiloga poi le esperienze dei governi progressisti latinoamericani di inizio 2000, la cosiddetta marea rosa che governava la regione. Letti oggi, i limiti dei progressisti sembrano un preludio all’ascesa delle destre “rabbiose e ideologizzate”. Qual è il bilancio di quei governi?
ALS Quei progressisti, Chavez, Lula, Kirchner, capirono che la guerra fredda era finita, che l’America Latina aveva le mani libere per cercare il proprio posto nel mondo. Rilanciarono l’idea di unità regionale, nacquero unioni politiche e commerciali. Rimisero al centro lo Stato, sovranità nazionale, investimenti e politiche sociali, in rottura con l’idea dell’arricchimento personale in voga negli anni 1990. In alcuni Paesi per la prima volta i profitti del petrolio e gas furono redistribuiti tra le classi popolari. Ma c’è una parte negativa: il tentativo di alcuni di farsi classe dirigente perpetua, associato alla corruzione. E poi hanno ignorato il problema dell’insicurezza e il narcotraffico, i cui effetti sono evidenti oggi e colpiscono in particolare le classi popolari. È un periodo chiuso, le sinistre di oggi sono diverse e sono tornate al governo per altri motivi. Lula non è stato eletto per cambiare il Paese, ma per salvare la democrazia. Oggi è più difficile costruire un blocco, come quello di inizio anni 2000. Petro e Boric sono alleati di Lula, ma sono tre sinistre diverse.

A proposito di relazioni con il mondo, lei scrive che “l’America Latina, a differenza degli Stati Uniti, è la figlia non riconosciuta dell’Europa”. Che cosa significa?
ALS L’America Latina è il luogo dove si aggiorna il concetto di Occidente. Prima del 1492 Occidente era l’Europa cristiana a Ovest di Gerusalemme. Con Colombo la casa della cristianità si allarga. La storia americana inizia nei Caraibi e in Messico, prima che negli Stati Uniti. Poi l’Occidente è diventato il club dei Paesi ricchi e America Latina è stata estromessa. Barack Obama, nella sua storica visita a Cuba nel 2016, disse “Todos somos americanos”, riconoscendo che quel mondo fa parte dell’Occidente. Le deboli relazioni euro-latinoamericane sono il segno di questa assenza di memoria e di prospettiva strategica. L’America Latina è un partner strategico con il quale l’Europa potrebbe costruire una relazione forte.

Nel libro appare spesso la figura di Simón Bolívar, 1783-1830, uno dei liberatori dell’America spagnola. Lo cita anche l’ex presidente colombiano, il conservatore Álvaro Uribe, in una delle interviste raccolte nel suo libro. Che cosa rappresenta oggi Bolívar per i latinoamericani?
ALS È una persona speciale. Fa parte della generazione dell’indipendenza, dei grandi ideali dell’Ottocento. Oltre a essere stato un militare vincente è stato un politico, ragionava in termini di unità tra i Paesi che avevano condiviso l’esperienza coloniale spagnola. Provò a costruire gli Stati Uniti del Sudamerica, un blocco che contasse a livello globale. Avremmo avuto tre Americhe: la ex colonia portoghese, la spagnola e quella anglosassone. La sconfitta politica di Bolívar portò alla frammentazione e alla subalternità. Ma il suo progetto è rimato nella testa dei latinoamericani di tutte le generazioni, non solo di sinistra. I progetti Unasur, Celac, Mercosur, si fondano sulle idee di Bolívar. Molti hanno lavorato contro queste idee. Penso al presidente argentino degli anni Novanta, Menem (uno degli intervistati nel libro, ndr), voleva relazioni con il primo mondo, così l’Argentina divenne socio esterno dalla Nato e partecipò alla guerra del Golfo.

Lei ha lasciato l’Argentina perseguitato dalla dittatura militare. Nel 1982 arrivò in nave come rifugiato politico a Genova. Aveva ventitré anni, cinquantamila lire in tasca, non parlava l’italiano e non aveva contatti importanti. Da allora inizia la sua carriera giornalistica, a Radio Popolare a Milano conduce la prima rubrica radiofonica in Italia sull’attualità e la cultura latinoamericana, pubblica libri, articoli, reportage, inizia il cammino per diventare una delle voci più autorevoli in Italia sull’America Latina. Calvino diceva che chi comanda il racconto non è la voce: è l’orecchio. L’Italia degli anni 1980 era curiosa verso l’America Latina. Oggi a un argentino che arrivasse in Italia che cosa consiglierebbe?
ALS Arrivai durante l’ultimo ciclo della solidarietà internazionale contro i golpe degli anni Settanta, con la Lega dei diritti dei popoli abbiamo costruito un pezzo dell’archivio poi finito nel rapporto della Comisión Nacional sobre la Desaparición de Personas in Argentina. L’America Latina non era politica estera, era politica interna, faceva parte del vissuto quotidiano italiano. Ricordo che durante la guerra civile in El Salvador, 1979-1992, da Milano mandammo apparecchiature radio per trasmettere dalla linea del fronte, durante i collegamenti a volte sentivi anche gli spari. Quel mondo è scomparso. Oggi America Latina è un mondo esotico, si conosce il mojito, Shakira, i narcos, resi simpatici da Netflix. A un argentino arrivato in Italia non consiglierei di occuparsi di America Latina, non è un mercato che rende.

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