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“Vuoti a prendere”. Se cala l’affidamento in comunità per i detenuti tossicodipendenti

Nonostante la situazione di emergenza in cui versano le carceri italiane dovuta a un tasso di sovraffollamento medio del 120%, solo il 7% dei detenuti con problematiche legate all’uso di sostanze è inserito in comunità terapeutiche. Eppure, le alternative all’ingresso negli istituti penitenziari esistono, denuncia il Cnca, che richiama l’attenzione sulla creazione da parte del governo di comunità private “chiuse”

Nonostante lo stato di cronica emergenza in cui versano le carceri italiane, dovuto soprattutto a un tasso di sovraffollamento medio del 120%, l’applicazione della misura alternativa alla detenzione per persone alcol/tossicodipendenti è in calo rispetto agli anni scorsi.

Solo il 7% degli assistiti per problemi di uso di sostanze (26.268 detenuti) ha accesso infatti alle comunità terapeutiche come misura alternativa alla detenzione. Nel 2023 le persone alcol/tossico dipendenti in carico agli Uffici locali per l’esecuzione penale esterna (Uepe) per misure alternative sono state 6.270, di queste la maggior parte proveniva dallo stato di detenzione (47%), il 20% erano persone in misura provvisoria dalla detenzione e solo il 23% si trovavano in stato di libertà.

È quanto evidenziato durante la conferenza stampa “Vuoti a prendere. L’affidamento in prova in comunità per i detenuti tossicodipendenti, una pratica in calo mentre il sovraffollamento carcerario aumenta”, organizzata presso la Camera dei deputati lo scorso 26 novembre dal Coordinamento nazionale comunità accoglienti (Cnca), rete che riunisce 240 organizzazioni del Terzo settore.

Una contraddizione che il Cnca ha sentito l’urgenza di portare allo scoperto, come riportato dalla presidente Caterina Pozzi. Il Cnca è infatti la realtà più ampia e numerosa di servizi del privato sociale rivolta a persone che usano sostanze e a chi presenta dipendenze da uso non controllato di sostanze e gioco d’azzardo. Allo stesso tempo è attiva da più di 40 anni nell’accoglienza di persone in misura alternativa alla detenzione, ne fanno parte infatti oltre 150 comunità terapeutiche residenziali e semi-residenziali.

Le alternative all’ingresso in carcere ci sono: “Esiste già un sistema accreditato e di qualità, che offre formazione, inserimento lavorativo e ricerca di alloggio, accompagnando le persone sul territorio”, ha spiegato Pozzi. Nell’ultima rilevazione le comunità terapeutiche residenziali ospitavano infatti quasi 400 persone in misura alternativa alla detenzione (affidamento) e quasi altrettanti posti sono ancora disponibili nelle comunità della rete sparse per l’Italia. Inoltre, da subito, potrebbero accedere alla misura e quindi uscire dal carcere 220 detenuti in 12 diverse Regioni.

Come sottolineato da Lenardo Fiorentini del Forum droghe, l’esperienza della detenzione per le persone dipendenti da sostanze non rappresenta solo una cesura nella loro vita ma anche nei servizi a cui hanno avuto accesso. Per questo, secondo Fiorentini, è importante mettere in rete le differenti istituzioni affinché queste persone possano essere rinviate verso misure alternative e tornare a controllare la propria vita e i proprio consumi, accompagnati e in una logica di empowerment. “La depenalizzazione è l’unica e reale soluzione -ha aggiunto-. Invece la penalizzazione dei consumi ‘rientra dalla finestra’ con la riforma sul codice della strada”.

I detenuti tossicodipendenti presenti negli istituti di pena al 31 dicembre 2023 erano 17.405, la fonte è la Relazione annuale sul fenomeno delle tossicodipendenze in Italia, elaborata dal Dipartimento per le politiche antidroga. Un numero che corrisponde al 29% del totale della popolazione carceraria (61.480). “Perché il tasso è così elevato? -è la domanda che ha posto Sonia Caronni, referente area penale adulti del Cnca, riportando un altro dato allarmante della situazione delle carceri italiane, quello dei suicidi che ad oggi tra le persone private della libertà ammontano a 81-. Perché non sta funzionando il dispositivo dell’affidamento terapeutico per i detenuti in comunità”, dove l’accoglienza in housing diffuso presenta diverse proposte per persone con fragilità particolare, con media fragilità e autonome.

Alcune soluzioni vengono suggerite da Riccardo De Facci, referente dei rapporti con le istituzioni sulle dipendenze del Cnca: il potenziamento e la messa a regime del personale sanitario ed educativo, così che il carcere diventi un luogo di presa in carico e valutazione delle persone con tossico dipendenza; reti di collaborazione stabili interne ed esterne al carcere che facciano da ponte verso sistemi territoriali esistenti e infine tavoli territoriali con la magistratura di sorveglianza.

“Gli invii in comunità di persone in attesa di giudizio sono diminuiti e centri diurni terapeutici sono vuoti”, ha sottolineato De Facci, esortando a pensare il carcere non come un’istituzione totale in cui si viene “rinchiusi per sempre” ma come una parentesi della vita. “Le situazioni nelle carceri, vedi quanto successo alla casa circondariale di Trapani o all’Istituto penale per i minorenni di Milano Beccaria, parlano da sole ma il governo non le ascolta”, ha concluso.

Dalle parole dei partecipanti è emersa inoltre la preoccupazione per il decreto legge del 4 luglio di quest’anno, il numero 92, e nello specifico per il comma 8 che prevede “l’istituzione di un elenco delle strutture residenziali idonee all’accoglienza e al reinserimento sociale” presso il ministero della Giustizia. “Questo decreto che ipotizza un elenco parallelo di strutture ci preoccupa -ha affermato la presidente del Cnca-. A fine anno si avrà il capitolato con le caratteristiche che queste strutture dovranno presentare, dai requisiti si capiranno le intenzioni governo”.

Riprendendo l’argomento, Stefano Anastasia, Garante dei diritti dei detenuti del Lazio, ha espresso il timore che quello appena citato sia un tentativo da parte del governo di introdurre una forma di finanziamento pubblico a soggetti privati per aumentare il numero delle comunità di tipo chiuso e per esternalizzare l’eccessiva presenza in carcere, prodotto dalle stesse politiche dell’esecutivo (a partire dal cosiddetto “Decreto Caivano”) e da una “tendenza alla sanzione” (riscontrabile perfino a scuola con la riforma del voto in condotta) tanto che, come ha affermato il deputato Riccardo Magi, ribadendo la necessità di agire sulla  diminuzione degli ingressi in un sistema al collasso, i numeri sono drammatici e l’impennata riguarda categorie che non si vedevano da tempo negli istituti penitenziari come i casi di minori oppure di reati di lievi entità.

“È indispensabile capire requisiti e criteri per l’accreditamento di queste strutture che possono avere ricadute negative sulla qualità del lavoro che è inscindibile dalla qualità servizio -ha aggiunto Denise Amerini, responsabile dipendenze e carceri della Cgil nazionale-. Non si può pensare a comunità chiuse dove non siano garantiti sia i diritti delle persone ospitate sia di quelle che ci lavorano”. La situazione delle carceri non riguarda infatti solo i detenuti. In primo luogo, è coinvolta infatti la polizia penitenziaria, tra cui si contano sette suicidi dall’inizio dell’anno: “Il sovraffollamento fa male anche a lavoratori”, ha ribadito Amerini.

Altri numeri importanti causati dal sovraffollamento delle carceri li ha riportati Franco Corleone della Società della ragione che ha sostenuto la necessità del numero chiuso: 26mila scioperi della fame, 10.844 atti di autolesionismo, 12mila ricoveri in ospedale, 15.088 casi di isolamento. Inoltre ha sostenuto la necessità di puntare al modello dell’Olanda che ha chiuso gli istituti penitenziari.

“Dobbiamo trovare modo per collaborare di più con polizia penitenziaria e con professionisti che lavorano nelle carceri -ha concluso Pozzi- e provare a dire tutti insieme che il carcere è un’istituzione in cui la dignità umana è scomparsa”.

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