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Voci dall’ospedale Al-Aqsa: sopravvivere alla paura di diventare la prossima fossa comune

La disperazione di una donna per l'uccisione dei cari dopo un attacco israeliano proprio a Deir Al-Balah il 12 maggio 2024 © APAImages/Shutterstock / Ipa-Agency.Net / Fotogramma

La struttura di Deir Al Balah è rimasta l’unico punto di riferimento per l’area centrale di Gaza, dove gli attacchi si sono intensificati e cresce l’afflusso di rifugiati da Rafah. I medici e gli sfollati vivono nel terrore di rivivere quanto accaduto nei presidi di Al Shifa e Al Nasser. La testimonianza di un cardiologo ancora operativo e di un medico generico che è riuscito a riparare in Egitto

Ali Tawil, trent’anni, è un cardiologo di Gaza. Lavora all’ospedale Al-Aqsa a Deir al-Balah, l’unico rimasto funzionante nella zona centrale della Striscia. Nonostante si tratti di una struttura di piccole dimensioni, adesso serve cinque città, dove gli attacchi si sono intensificati ad aprile, uccidendo decine di persone, soprattutto bambini, lasciando nell’incertezza chi vive e lavora all’interno. Da quando è iniziata la guerra, Tawil deve occuparsi anche dei reparti di primo soccorso e terapia intensiva con turni di 48 ore. Il personale sanitario è stato costretto a spostare e rimontare i macchinari da altri reparti per espandere l’unità di terapia intensiva. 

“Quando senti il rumore delle esplosioni nelle vicinanze, non hai solo paura di morire, temi che un massacro possa avvenire da un momento all’altro se l’ospedale venisse colpito -spiega ad Altreconomia il dottor Tawil-. Allo stesso tempo, devi prepararti per l’arrivo imminente di una massa di feriti, sapendo che non riuscirai a salvare tutti e consapevole che infliggerai un dolore lancinante ai bambini che curerai senza anestesia”. Anche quando i feriti sono in condizione di lasciare l’ospedale, si rifiutano di farlo. Alcuni sono profondamente traumatizzati e non escono dall’edificio per paura di essere nuovamente colpiti dai bombardamenti. Intere famiglie vivono all’interno della struttura, altre dormono per terra nei corridoi, altre ancora nelle tende che circondano lo spazio esterno dell’ospedale. 

Le strutture ospedaliere di Gaza ospitano un numero senza precedenti di feriti e fungono da rifugio per migliaia di sfollati che vivono sotto la costante minaccia dell’esercito israeliano. Solo 12 dei 36 ospedali della Striscia sono attivi a inizio maggio. L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha registrato più di 440 attacchi a complessi medici e ospedalieri dall’inizio della guerra, con oltre 700 persone uccise all’interno o in prossimità di strutture sanitarie. Le autorità israeliane hanno limitato l’ingresso di forniture mediche, colpito le ambulanze durante le operazioni di soccorso e bombardato i principali ospedali della Striscia, oltre a rapire e torturare civili e personale medico. Dopo settimane di assedio, negli ospedali di Al-Shifa a Gaza City e Al-Nasser a Khan Younis, sono stati ritrovati centinaia di corpi senza vita in delle vere e proprie fosse comuni. 

Anche il cortile esterno di Al-Aqsa è stato colpito da un razzo israeliano alla fine di marzo. Quattro persone sono morte e 17 sono rimaste ferite nell’impatto. Poche ore prima dell’attacco, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite aveva annunciato una risoluzione per il cessate il fuoco, dando a molti palestinesi la speranza che qualcosa potesse cambiare in meglio. Al momento di quell’attacco il dottor Tawil stava per iniziare il suo turno. “Mi sono detto: forse questo è l’inizio di un’operazione su larga scala? Potevo decidere se andarmene o restare, ma sono un medico, questo è il posto a cui appartengo e ho il dovere di aiutare la mia gente quanto più possibile. La vita deve continuare, ogni vita è degna e preziosa”. 

I medici di Al-Aqsa stanno registrando un aumento esponenziale dei casi di epatite A dovuti alla contaminazione dell’acqua. Solitamente l’epatite A non è una patologia mortale ma le insufficienti condizioni igieniche e il prolungato indebolimento fisico della popolazione stanno adesso causando molti decessi. Con l’inizio dell’offensiva nel Sud della Striscia, la zona centrale si prepara ad accogliere un numero ancora più alto di sfollati. Centinaia di persone potrebbero stabilirsi nei dintorni dell’ospedale, che, con il blocco totale del valico di Rafah, dovrà far fronte ad ulteriori limitazioni di rifornimenti. 

Moamen Hassouna, 32 anni, è un autista originario di Az Zawayda. La sua casa è stata distrutta da un bombardamento in cui hanno perso la vita 15 persone. Da ottobre vive in una delle 200 tende nel cortile dell’ospedale Al-Aqsa. Non credeva che una struttura medica potesse diventare un bersaglio, pensava che sarebbe stato il luogo più sicuro dove ripararsi. 

La casa distrutta di Moamen

“Quando l’ospedale viene colpito la gente va nel panico e cerca di evacuare, ma la realtà è che non abbiamo un altro posto dove andare”, come spiega Moamen, l’ospedale non è solo un rifugio, ma anche una fonte accessibile per acqua ed elettricità, che mancano disperatamente nella zona. “Possiamo scegliere tra restare qui, consapevoli di poter diventare la prossima fossa comune ritrovata sotto le macerie di un ospedale, o trasferirci nelle città circostanti, senza risorse e comunque sotto minaccia”. 

Il diritto umanitario internazionale riconosce gli ospedali come strutture civili che non possono essere attaccate. Anche se ci fosse la presenza di un gruppo armato all’interno, i malati devono essere trasferiti in un luogo sicuro. Tuttavia, evacuare gli ospedali è un’operazione impegnativa e ad alto rischio. Ci sono neonati e feriti dipendenti dalle macchine, oltre che pazienti con fratture e ustioni incapaci di muoversi autonomamente. Chi attacca ha l’obbligo di avvertire per tempo prima di colpire ed è responsabile di prendere tutte le precauzioni per evitare danni ai civili. 

Ibrahim Matar, 28 anni, è un medico generico per il quale Al-Aqsa è stato sia il luogo di lavoro sia la sua unica casa, per mesi. Con difficoltà il dottore ha deciso di evacuare in Egitto per mettersi in salvo, e adesso collabora con un’associazione per inviare farmaci a Gaza. “È la prima volta che sono all’estero -spiega Matar-. Per giorni sono rimasto scioccato nel vedere che c’è vita fuori da Gaza, le case hanno un tetto, non ci sono bombe e le persone vivono normalmente. Controllo compulsivamente le notizie. La mia famiglia è al Nord, sono anziani e innocenti, perché devono morire di fame?”. 

I traumi del lavoro e delle condizioni di vita all’interno dell’ospedale emergono adesso che vive in un luogo sicuro al Cairo. Il medico racconta di una bambina che si è miracolosamente risvegliata da una sorta di coma causato da gravi ferite. Quando ha ripreso conoscenza, Matar le ha chiesto che cosa stesse sognando: “Un cessate il fuoco che duri per sempre”, ha risposto lei. Nessun membro della sua famiglia è sopravvissuto, e i medici non sapevano come dirglielo. 

“È un insulto all’umanità. Ci sono corpi in decomposizione per strada, queste sono persone con delle famiglie che stanno ancora sperando che i loro cari siano solo dispersi. Mentre lavori, sai che uno dei feriti o dei morti che arrivano in ospedale potrebbe essere tuo figlio, tua moglie, tua madre. Un genocidio sta accadendo. Sotto gli occhi di tutti”. 

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