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Ambiente / Reportage

Vivere all’ombra della Caffaro, il gigante che avvelena Brescia

La Caffaro venne fondata nel 1906 in quella che allora era la periferia di Brescia © Beatrice Cambarau

Per decenni le sostanze inquinanti prodotte dallo stabilimento bresciano hanno contaminato i terreni e l’acqua delle rogge, mettendo a rischio la falda acquifera e la salute degli abitanti. Ma le bonifiche procedono lentamente

Tratto da Altreconomia 259 — Maggio 2023

“È stato fatto il punto sulla bonifica e si è convenuto un percorso. La situazione va assolutamente risolta”. È fine gennaio di quest’anno quando la voce di Gilberto Pichetto Frattin, il ministro dell’Ambiente e della sicurezza energetica, entra nelle case dei bresciani grazie al telegiornale locale Teletutto. La situazione che “va assolutamente risolta” è l’inquinamento causato dalla Caffaro, un’azienda chimica attiva per anni a Brescia poi chiusa. Pierino Antonioli, che ha vissuto sulla pelle le conseguenze della contaminazione, accoglie le parole del ministro con scetticismo: è abituato alle promesse non mantenute. “Dicono che hanno raccolto venti milioni di euro. Se aspettano ancora un po’ quei soldi non saranno abbastanza. Faranno qualcosa di buono ora? È da vent’anni e più che va avanti così: i nostri campi sono ancora inquinati, non è stato fatto niente”.

Antonioli è un ex agricoltore di ottant’anni: “Mi hanno sequestrato tutto -racconta ad Altreconomia-. Perfino la roba che avevamo nel freezer. Hanno messo tutto sotto sequestro”. Il suo terreno si trova a circa due chilometri e mezzo dallo stabilimento, a ridosso della tangenziale Ovest. Abita in un casolare bifamiliare costeggiato da rogge, piccoli canali artificiali per irrigare i campi. “Sono ottant’anni che vivo qui. I miei genitori erano qua ancora prima”.

Nell’estate del 2001, sulla scia dell’indagine condotta dallo storico ed esperto ambientale Marino Ruzzenenti, esplode il “caso Caffaro”. Si apre così l’interminabile vicenda di uno dei siti più inquinati e controversi d’Italia. Una stagione di analisi, studi, divieti, attese e paure. Si cerca di circoscrivere il perimetro del territorio contaminato ma si scopre che questo si estende ben oltre i confini del Comune di Brescia. Dopo quasi due anni di indagini, nel febbraio del 2003, il ministero dell’Ambiente classifica il perimetro della Caffaro come Sito di interesse nazionale (Sin) con due distinti perimetri: il suolo e la falda. Si inizia a pensare al recupero ambientale e alla bonifica con lo stanziamento di primi fondi da parte dello stesso ministero. I parchi e i giardini adiacenti allo stabilimento vengono chiusi.

“Noi non sapevamo niente, sentivo dire: ‘La Caffaro ha inquinato’. Ma pensare che avesse contaminato i nostri terreni proprio no”. La vita di Antonioli è stata completamente stravolta dall’inquinamento causato da policlorobifenili (Pcb) e diossine. “Dal giorno in cui è iniziata questa storia, nel 2001, non abbiamo potuto fare più niente -ricorda l’ex agricoltore-. Hanno fatto le analisi al latte, al terreno, ai nostri animali e a noi, trovando il Pcb. Mia moglie dava ai nipoti più grandi, che venivano a trovarci, i nostri prodotti. Pensava che fossero più sani”.
È amareggiato: “Mio nipote aveva il Pcb quando è nato. Quando era un po’ grandino gli hanno fatto le analisi, lo aveva assorbito attraverso il latte materno”.

Da più di vent’anni, Antonioli non può più coltivare la terra né allevare il bestiame a causa della produzione di agenti inquinanti della vecchia azienda chimica. Nel 2019 i campionamenti effettuati dalla Provincia di Brescia nello scarico delle rogge indicano che la concentrazione di Pcb è superiore del 500% rispetto al limite consentito. La Caffaro dunque non ha mai smesso di inquinare: la mancata manutenzione della barriera idraulica nella falda non ferma la fuoriuscita di sostanze tossiche. “La cosa urgente era ed è sempre l’emergenza della falda. Bisogna evitare di distruggere quella di Brescia altrimenti si dovrà vietare ai cittadini di utilizzare l’acqua del rubinetto e rifornirli con le autobotti”, spiega Ruzzenenti, che continua a monitorare la situazione.

Pierino Antonioli è un ex agricoltore di 80 anni. Vive da sempre in un casolare a circa 2,5 chilometri dal sito della Caffaro. Nel 2001 i suoi terreni vengono posti sotto sequestro perché contaminati. Successivi esami rivelano la presenza del Pcb anche nel sangue dell’uomo e della sua famiglia © Beatrice Cambarau

A due passi dal centro storico del capoluogo lombardo, tra via Nullo e via Milano, sorge lo stabilimento dell’azienda. Un alto muro di mattoni rossi circonda l’architettura industriale dei primi del Novecento. “La Caffaro era tutta chiusa, sembrava quasi un castello -racconta Maria Mercanti, insegnante nel quartiere popolare di Fiumicello, adiacente allo stabilimento-. Quando ci passavi davanti, e lo facevi più volte durante il giorno, sembrava un’entità viva. Era come un essere vivente, la ‘signora Caffaro’. Interagiva con le nostre vite. Ci convivevi”.

L’azienda è stata fondata nel 1906, nella zona residenziale appena fuori il centro storico, come Società elettrica ed elettrochimica del Caffaro. Sfruttava il salto del fiume Caffaro a Bagolino per l’alimentazione degli impianti di cloro-soda e la falda della città per lo scarico degli inquinanti. “Lì intorno c’erano i campi, hanno costruito tutto in una fase successiva -racconta Mercanti-. La connotazione dei quartieri è cambiata in maniera radicale negli ultimi cinquant’anni. Le persone che vivono in zona sono lì da poco, è diventata l’area dei cittadini stranieri extracomunitari, che non sapevano della situazione della Caffaro e del perché gli immobili costassero poco”.

Emilio Mercanti, fratello di Maria, ricorda che cosa volesse dire passare davanti allo stabilimento in via Milano. “Ci chiedevamo: ‘Ma come fanno le persone a vivere qui?’”. Perito industriale in pensione, ha sempre vissuto ai piedi della grande arteria di via Milano, nella zona poco fuori la Caffaro. Come ogni persona del luogo doveva transitare ogni giorno davanti allo stabilimento per le sue attività: “Il bus che mi portava alla scuola media in città passava lì davanti. Dovevamo tapparci il naso per l’aria irrespirabile e la puzza”.

Dagli anni Venti, sotto licenza di Monsanto, la Caffaro è stata l’unica azienda italiana a produrre Pcb rilasciandoli nelle rogge, inquinando i terreni. “Ha chiuso gli impianti di Pcb nel 1982 smettendo definitivamente la produzione nel 1984”, spiega Anna Maria Seniga, che ha lavorato nello stabilimento bresciano per quarant’anni. L’attività dell’azienda ha inquinato i terreni fino a una profondità di oltre quaranta metri, riporta l’Agenzia regionale per la protezione ambientale (Arpa); sostanze tossiche come Pcb, diossine, solventi clorurati, benzene, mercurio e arsenico hanno raggiunto la risorsa idrica sotterranea.

L’Agenzia di tutela della salute di Brescia, in accordo con la letteratura scientifica internazionale, rileva che la contaminazione sia avvenuta soprattutto attraverso la catena alimentare. “Noi mangiavamo tutto quello che producevamo, il lardo, la verdura, i polli. Non sto bene, ma come fai a dire che è colpa della Caffaro?”, riprende Pierino Antonioli, che soffre di ben tre patologie correlate alla contaminazione da Pcb.

Un legame riconosciuto dall’Agenzia di tutela della salute di Brescia. Le diossine e i Pcb sono entrati nel sangue dei cittadini con livelli di tossicità “tra i più alti osservati a livello internazionale”, si legge nel rapporto Sentieri, un programma di indagini epidemiologiche coordinato dall’Istituto superiore di sanità con l’Associazione italiana dei registri dei tumori. “Prima di andare in mensa e di tornare a casa, per salvaguardare le nostre famiglie ed evitare così la contaminazione ci cambiavamo gli indumenti da lavoro in una camera bianca, separata dagli spogliatoi e dai nostri indumenti personali”, ricorda Seniga. La donna rievoca anche gli scioperi e le dure proteste durante i tanti anni di lavoro alla Caffaro: “Abbiamo pensato alla salvaguardia della salute dei lavoratori prima di tutto, solo così potevamo tutelare le nostre famiglie”.

“Dal giorno in cui è iniziata questa storia non abbiamo potuto fare più niente. Hanno fatto le analisi al latte, al terreno, ai nostri animali e a noi, trovando il Pcb” – Pierino Antonioli

A causa della liquidazione dell’azienda Snia-Caffaro, avvenuta nel 2009, è stata la collettività a doversi fare carico della bonifica, almeno per le aree verdi pubbliche. “Metterei sempre il termine bonifiche tra virgolette, parliamo piuttosto di contenimento -spiega Ruzzenenti-. Si dà per scontato che per bonifica dei terreni inquinati da diossine e Pcb si debba intendere l’asportazione degli stessi, per circa un metro di profondità e la ricollocazione in discarica”.

Gli interventi realizzati finora sono pochi: limitate rimozione del terreno inquinato nei parchi adiacenti alla Caffaro e la parziale messa in sicurezza delle rogge. “Il giardino è stato bonificato nel 2014-2015, ora ci hanno permesso di fare anche l’orto”, racconta Ornella Mazarini, insegnante della scuola primaria “Divisione Acqui”. Sul banco accanto a lei una cartellina di carta verde con vecchie fotocopie di fotografie in bianco e nero. Mail stampate, ritagli di giornali locali e appunti scritti a mano dei diversi avanzamenti degli interventi nell’area della scuola. Rimane aperta invece, la questione delle bonifiche per i giardini privati, gli orti e i terreni agricoli. Come quelli di Pierino Antonioli, che non ha mai ricevuto un sostegno o un indennizzo né per le spese mediche né per la chiusura della sua attività, l’unica sua fonte di reddito. “Di risarcimento non se ne parla neanche. Vivo con la nostra pensione agricola, non è molto”.

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