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Diritti / Opinioni

Verdetti e ragioni. Tra fiducia nel sistema e giustizia

© Maria Oswalt - Unsplash

Fa riflettere l’assoluzione negli Usa di un suprematista responsabile dell’omicidio di due manifestanti di Black Lives Matter. La rubrica di Enrico Zucca

Tratto da Altreconomia 244 — Gennaio 2022

Nel 2020, a Kenosha (Wisconsin) durante le proteste di Black Lives Matter per l’ennesimo sproporzionato uso della forza letale contro un nero a opera della polizia, il 17enne Kyle Rittenhouse, armato di un fucile d’assalto, in guisa di vigilante, ha ucciso due manifestanti e ne ha ferito un terzo. Lo ha fatto per legittima difesa, secondo il recente verdetto di una giuria. Ha commentato il presidente Biden che molti americani, lui incluso, sono infuriati e preoccupati per l’assoluzione. Pur avendo già espresso giudizi duri sull’imputato definito un suprematista, non ha esitato tuttavia a sostenere che il verdetto pone fine ad ogni questione, perché “così funziona il sistema”. Analogamente, questa volta con adesione, ha espresso fiducia nel sistema per la condanna a Brunswick (Georgia) di tre bianchi, per l’omicidio di Ahmaud Arbery, un nero sospettato senza ragione di aver commesso furti e freddato a colpi di fucile. Qui la giuria ha negato ci fosse legittima difesa. L’opposto esito delle vicende sembra dargli ragione, ma a ogni verdetto delle giurie si teme il dissenso anche violento.

Questi processi sollecitano tensioni radicate nel razzismo, nelle diseguaglianze, nella violenza non solo della polizia, ma dei cittadini, che portano in pubblico armi e che possono farne uso con poche restrizioni. Anche in un clima così divisivo, l’accettazione sociale del verdetto della giuria come decisione “giusta” può poggiare soltanto sulla percezione della regolarità del processo, cioè della leale contesa delle parti. È infatti vero che il verdetto chiude la partita, perché immotivato. L’accusa non può quindi appellare l’assoluzione e la difesa in caso di condanna può solo denunciare vizi del processo, non la valutazione dei giurati. Il presidente Biden riafferma quindi, pur di fronte al più discutibile esito, l’eccezionalismo americano, che impedisce anche solo di immaginare alternative al sistema. Non mancano denunce della strutturale iniquità del processo americano, il modello accusatorio più spinto, dove le diseguaglianze sociali sono amplificate nella contesa tra una forte parte pubblica e una difesa effettiva per pochi abbienti (per la cronaca, le ingenti spese per gli avvocati di Rittenhouse sono state pagate da un crowdfunding, incluse donazioni da parte di poliziotti e pubblici ufficiali), ma la fiducia che il sistema sia il migliore non cede.

Due i manifestanti uccisi (e un terzo è stato ferito) il 25 agosto 2020 da Kyle Rittenhouse a Kenosha durante le proteste del movimento Black Lives Matter

Il riferimento al rito accusatorio, come modello prescelto anche dal nostro legislatore e costituzionalizzato nei suoi principi fondamentali, dimentica spesso ciò che conserviamo -opportunamente- della diversa tradizione storica delle nostre istituzioni. In primo luogo, la motivazione delle decisioni, che fa conoscere, quindi controllare, il ragionamento del giudice, criticabile anche nel merito, cioè rivalutando le prove, essendo poi esecutive solo le sentenze finali. Ciò che conta è non solo come si perviene al risultato, ma anche la sua qualità. Accettiamo una decisione perché legittimamente pronunciata, ma soprattutto per ciò che spiega. Non sappiamo se i giurati del processo Rittenhouse abbiano deciso ragionevolmente o con pregiudizio e nessuno di loro, cittadini comuni, sarà mai chiamato a risponderne. È il sistema al centro, non altro. Quando qui fa scandalo la riforma di una sentenza in appello o in Cassazione, potremmo invece riconoscere che il sistema ha funzionato e non delegittimarlo.

Anche in Francia, come per la giuria americana, le decisioni delle Corti di Assise, dove i cittadini affiancano i giudici e che trattano i più gravi reati, non si motivano e sono inappellabili. Neppure questo da noi e meglio così, senonché s’è ora escogitata in appello una ghigliottina (processuale) che rischia di buttare al macero processi già fatti e lunghe motivazioni, queste ultime la base che consente proprio l’impugnazione. Non v’è coerenza di sistema, ma la riforma giunge lapidaria come un verdetto.

Enrico Zucca è sostituto procuratore generale di Genova. È stato pubblico ministero del processo per le torture alla scuola Diaz durante il G8 dell’estate 2001.

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