Interni
Un’Italia capace di crescere
Le imprese sociali assumono ancora. E per giovani laureati e immigrati rappresentano un’alternativa alla disoccupazione. Da Nord a Sud —
Assumono donne, giovani, immigrati e rappresentano uno sbocco lavorativo per laureati e professionalità avanzate. Non stiamo parlando della grande industria, ma del mondo dell’impresa sociale italiana, piccola e media. Delle cooperative, e di tutte le imprese che producono e scambiano beni e servizi di utilità sociale e di interesse generale. Che -secondo l’indagine sulla struttura professionale delle assunzioni delle imprese sociali di Unioncamere- assumono ancora, soprattutto giovani (63% del totale nel 2012) e donne (28,7%). La percentuale di assunzione degli immigrati è del 20% superiore rispetto al totale delle imprese italiane. Hanno un dato di laureati assunti doppio rispetto a quello nazionale (27,7% contro il 14%). Dal 2006 al 2012, l’impiego di figure professionali high skill, cioè ad alte competenze, è cresciuto dal 26,8% al 34,3%. Nel 2012 si prevede un calo limitato all’1,2% della forza lavoro occupata nelle imprese sociali, molto inferiore al dato sull’economia nazionale. È il lavoro che tiene.
“La forza la prendiamo dalla capacità di riuscire ad inventarci sempre cose nuove. Invece di sbattere la testa contro il muro, cerchiamo di vedere dove finisce il muro e poi ci giriamo intorno”. Parola di Dino Barbarossa, uno che di muri se ne intende: è presidente della fondazione Ébbene (www.ebbene.it) che mette in rete più di 200 cooperative sociali già riunite nel Consorzio Sol.Co. (www.solcoct.coop) che ha sede a Catania. La fondazione è nata per sostenere la ristrutturazione di un podere confiscato alla mafia. Dai vecchi scalcinati muri nascerà un centro di aggregazione giovanile, “Colline giovani”.
Dalla Sicilia inizia il nostro viaggio nell’Italia della dignità del lavoro di imprese “diverse”. In tutta la regione le cooperative del consorzio danno lavoro a più di 2000 persone: “Da pochi mesi abbiamo dato vita alla fondazione intorno a questo progetto, ma ha già dato impulso alla creazione di 12 centri di prossimità gestiti dalle cooperative della nostra rete. Offriamo servizi ai cittadini sia gratuitamente, per chi ne ha più bisogno, sia chiedendo un corrispettivo. Cerchiamo di coinvolgere il più possibile la cittadinanza e ci rivolgiamo a chi vive situazioni di necessità, ma anche a coloro che hanno una domanda di welfare non soddisfatta dall’amministrazione pubblica. Ci occupiamo di servizi più propriamente sociali, ma pure di mobilità e trasporto, cinema, aggregazione, benessere. I nostri progetti si basano sulla qualità del lavoro di tutti coloro che vi operano. La domanda di lavoro è spaventosamente grande, e non riusciamo a soddisfarla interamente. Nonostante questo siamo un’eccezione, perché continuiamo a crescere e a puntare sui giovani”. Nelle cooperative del Consorzio la formazione avviene “sul campo”. “Accogliamo -racconta Barbarossa- giovani che chiedono di fare un’esperienza e cerchiamo di valorizzarli all’interno delle nostre strutture. Credo che puntare sulle persone di valore sia la carta vincente”. Nel consorzio Sol.Co. ci sono due generazioni: quelli che vi lavorano da quando è nato e i trentenni che sono entrati per lo più tramite esperienze di tirocinio. Le cooperative del consorzio si sono messe in rete già venti anni fa. “Questo -racconta ancora Barbarossa- ci ha consentito di continuare a crescere nonostante un sistema di welfare che fatica e fa passi indietro. Non sentiamo la crisi, se non marginalmente, perché abbiamo costruito una rete di persone e non solo di imprese. Se dovessimo dipendere solo dai fondi pubblici sarebbe un disastro. Il problema, oltre la politica, è la burocrazia, soprattutto della Regione Sicilia. C’è un uso distorto di fondi pubblici, soprattutto quelli comunitari, che non vengono spesi. Ciò significa depauperare un’economia come quella siciliana, che invece potrebbe crescere. Ma le risorse umane le avremmo: quanti cittadini vanno a lavorare fuori e diventano brillanti professionisti? Qua prevalgono ancora le logiche clientelari, ma la nostra esperienza dimostra che il lavoro può essere diverso”.
Senza dimenticare quello agricolo: “Terra Mia” è un fondo di 19 ettari nel ragusano, con 800 metri quadri di immobili che accoglieranno strutture ricettive e progetti agricoli, e potranno dare lavoro a una cinquantina di giovani, la metà dei quali con problemi di disagio psichico. All’agricoltura hanno pensato anche nella cooperativa Eta Beta (www.etabeta.coop) di Bologna. “EtaBetaBio è il progetto nato nella nostra cooperativa che nel 2013 diventerà autonomo: supportiamo tre agricoltori biologici nella distribuzione dei prodotti in rete con i gruppi di acquisto solidale. Un tipico esempio dei nostri spin off” racconta Joan Crous, origini catalane, presidente della cooperativa. Agli albori Eta Beta era un’associazione che si occupava di sociale, oggi è una cooperativa mista che lavora per gli enti locali e le Asl. “In questo momento -racconta Crous- seguiamo 40 persone, fra cui 12 assunti e altri in borsa lavoro e con progetti di tirocini formativi”. In cinque anni, cioè, la cooperativa ha creato dodici posti di lavoro. “Il nostro compito -spiega ancora Crous- è quello di elaborare i progetti, avviarli e poi contribuire alla costituzione di imprese sociali indipendenti. Andiamo un po’ controcorrente perché non ci ingigantiamo, ma mettiamo a disposizione le nostre capacità come incubatori”. Tra le nuove imprese: una di pulizie specializzate e servizi igienici, che utilizza solo prodotti naturali, e numerose realtà artigianali che impiegano i lavoratori comunemente definiti “svantaggiati” in percorsi di reinserimento. “Se non tuteliamo gli antichi mestieri -spiega Crous- fra poco spariranno. Un altro progetto si chiama Cristalgemma (www.cristalgemma.it). Ha una grande forza terapeutica e si è inserito nel mercato delle creazioni in vetro: dalle vetrate per le chiese ai mosaici alle piastrelle, ai piatti, specchi, gioielli. Non abbiamo professori che fanno lezioni, ma un modello di apprendistato basato sul tramandare il mestiere. Così il lavoro cambia e ridà speranza alle persone che vengono da percorsi di dipendenze o disagio psichico. Cinque adesso campano del proprio mestiere di artigiani”.
L’ultimo progetto della cooperativa Eta Beta si chiama “Lavanda” e sta avendo un successo clamoroso. Vuole eliminare dagli asili nido, pubblici o privati, i pannolini usa e getta, organizzando un servizio di noleggio quotidiano. “Noi abbiamo creato il marchio e il progetto, e lo concediamo gratuitamente a chi segue determinate procedure di garanzia. Con 3mila pannolini si creano 2 posti di lavoro. Se si considera che in Italia si buttano 25.000 tonnellate di pannolini ogni anno, solo intercettandone il 10% significherebbe creare 3mila posti di lavoro. Questa -conclude Crous- è l’economia che fa bene al territorio: non lo consuma e preserva la dignità del lavoro”.
E che le buone idee alla fine possano attecchire lo dimostra anche un’altra storia.
A Lucca, a due passi dalle antiche mura, Daniele Simi ha preso da qualche anno in gestione, insieme ai fratelli, l’azienda di detergenti creata dal padre. “Con nuovi presupposti -racconta-: convertendola totalmente in azienda ecologica”. Così, utilizzando l’esperienza acquisita, Daniele e i fratelli hanno abbandonato la chimica convenzionale e adesso producono solo detergenti e saponi ecobio. L’azienda si chiama Nivel (www.biolu.it): “Il mercato tradizionale sente la crisi -racconta Simi, ma noi continuiamo a creare occupazione, con contratti stabili. Oltre a noi, dal 2009 abbiamo assunto 4 lavoratori, uno dei quali proviene dallo Sri Lanka”. L’età media delle persone che lavorano per la Nivel, e che ogni giorno sforna prodotti con marchi ormai noti come “Biolù”, è di 28 anni e alla crescita dell’azienda ha contribuito la presenza nelle fiere di settore e la rete che si è create inizialmente in decine di punti vendita nella provincia di Lucca, nonché la diffusione on-line e sui social network. “Oggi siamo orgogliosi: cinque anni fa ci chiudevano la porta in faccia, e in poco tempo abbiamo aperto la diffusione a livello nazionale”.
La porta in faccia, almeno all’inizio, se la son vista chiudere anche gli ideatori di un’altra esperienza in rapida espansione. Ce la racconta Maurizio Magnolato, fondatore del marchio Dentalcoop (www.dentalcoop.it) nato in Veneto, che oggi è una rete di cooperative di dentisti riunite sotto il Consorzio Cosea. “Quando siamo partiti, nel 2005, eravamo io e un medico. Ci guardavano come animali rari e con diffidenza perché nell’odontoiatria il mondo professionale e le corporazioni sono spesso chiuse. Ho portato un modello organizzativo diverso e il successo è arrivato naturalmente: la chiave sono i listini. Abbiamo tagliato i prezzi del 30-40%, razionalizzando i costi, senza risparmiare sulla qualità, per far pagare meno i clienti. Abbiamo preso dentisti giovani e insieme ad altri di grande esperienza li abbiamo formati e immessi nei sistemi modulari di Dentalcoop”.
Poi si sono avvicinati ai grandi gruppi cooperativi e alle realtà del terzo settore per stipulare le convenzioni, inventando anche progetti di prevenzione per bambini. “Abbiamo visto -aggiunge Magnolato- che il modello piaceva e conveniva a tutti. Così ci siamo strutturati in tutta Italia. Da noi arrivano giovani di 35 anni che magari nello studio del luminare facevano i garzoni di bottega. Noi li affianchiamo a tutor che li formano e li portano a crescere, sempre nell’interesse del paziente. Nei giovani abbiamo trovato molta disponibilità, generata dal fatto che i baroni spesso non danno loro spazio. Abbiamo stravolto i principi: va avanti chi è bravo. Così adesso sono le università e i medici che si avvicinano a noi”.
Sotto il marchio Dentalcoop esistono già una trentina di aziende che fatturano 30 milioni di euro all’anno e impiegano un migliaio di lavoratori, una metà dei quali medici. “Non ci spaventa il fatturato, tutti i profitti vengono reinvestiti. Abbiamo costituto una piccola società di servizi, che si chiama Dentaltop: il consorzio è il filtro che controlla i requisiti etici, ma una volta che le persone entrano costituiscono la propria cooperativa. Il medico prende il 35% di quello che fattura, ma non è più costretto a gestire la burocrazia; il 45% assorbe le spese, e il resto è margine operativo. Con i principi che ci siamo dati da noi non può esistere il ‘nero’, e tutto viene registrato, anche le visite dei figli. Prevediamo di arrivare a una sessantina di cliniche prima di fermarci”.
E se i grandi numeri diventano difficili da gestire, è innegabile che diano anche opportunità: “La nostra storia è stata una corsa micidiale, con il tentativo costante di stare sul mercato -racconta Roberto Leonardi, fondatore ed ex presidente del Consorzio di cooperative Abn (consorzioabn.it) di Perugia, istituito nel 1997-. Oggi dipendiamo poco dai fondi pubblici e continuiamo a crescere. Siamo andati sui mercati in cui la nostra struttura, in quanto imprese sociali, aveva una marcia in più. Abbiamo avuto un boom sulla gestione diversa di beni pubblici, turismo, locali, ristoranti e bar, ma anche servizi tradizionali come pulizie, verde pubblico”. Oggi il Consorzio riunisce 45 cooperative presenti non solo in Umbria, ma anche in altre 9 regioni che danno lavoro a circa 3.000 persone. “Il salto lo abbiamo fatto con le energie rinnovabili -racconta Leonardi-. Tra il 1997 e il 2002 abbiamo iniziato ad impiegare, oltre a persone che venivano da percorsi difficili come dipendenze o disagio psichico, uomini e donne messi in cassa integrazione o mobilità provenienti da grandi aziende che iniziavano a chiudere. Abbiamo aiutato molti lavoratori a rimettersi in gioco, magari in età avanzata”.
Oltre ai servizi classici gestiti dalle cooperative, già dal 1999 il consorzio iniziò ad operare sulle fonti di energia rinnovabili. Prima con il solare termico, installando 10mila metri quadrati di impianti, poi col fotovoltaico. “Nel 2001 -racconta Leonardi- eravamo già pronti ad entrare nelle rinnovabili, con competenze spinte. Portammo 200 installatori in un attimo dal solare termico al fotovoltaico. Questi lavoratori erano ora fieri di sé: un 40% di soggetti cosiddetti svantaggiati e un 60% di non più giovani che accettavano di stare in questa squadra”. Lo scorso anno il consorzio Abn ha fatturato 60 milioni di euro. Oltre che ne fotovoltaico investe nell’housing sociale, nell’autocostruzione, nei servizi in partenariato con gli enti pubblici. “Solo il 20% -conclude Leonardi- del nostro fatturato è rappresentato da appalti pubblici. Lo Stato spesso non ci dà nulla, ma ci permette di gestire e curare la manutenzione di spazi pubblici e culturali. Ci hanno avvicinato grandi industrie energetiche, come Sorgenia, per lavorare insieme e ci stiamo espandendo anche all’estero”. —