Economia / Attualità
Airbnb: è scontro tra il colosso degli affitti online e le città europee
Amsterdam, Barcellona, Berlino e Parigi: le capitali che stanno cercando di regolare il mercato degli annunci, salvaguardare l’accessibilità degli alloggi e fermare l’espulsione dei residenti, ostacolano gli affari della piattaforma. La partita si gioca a Bruxelles, dove operano anche i lobbisti di Airbnb. Il nuovo report di Corporate Europe
Un nuovo report del Corporate Europe Observatory di Bruxelles (CEO, corporateeurope.org) mette in luce ancora una volta la controversa strategia commerciale e di lobby della piattaforma online degli affitti Airbnb. Intitolato significativamente “UnfairBnB” e pubblicato a inizio maggio, il lavoro di CEO ricostruisce lo scontro in atto tra alcune amministrazioni locali delle più grandi città europee -Amsterdam, Barcellona, Berlino, Parigi su tutte- e il colosso americano.
Il punto è la regolamentazione di un settore in crescita: nell’Unione europea, dati Eurostat alla mano, il numero di notti trascorse da non residenti in un Paese Ue è aumentato del 40 per cento tra il 2009 e il 2016. E a livello comunitario il mercato della “locazione condivisa” ha raggiunto un fatturato pari a 15 miliardi di euro, tre volte quello del trasporto, dove l’omologo è Uber. Come dimostrano i dati raccolti dalla campagna di monitoraggio “InsideAirbnb” lanciata dall’attivista americano Murray Cox, ripresi nel rapporto di CEO, buona parte degli annunci pubblicati sulla piattaforma Airbnb riguarderebbero però intere abitazioni, talvolta affittate per tutto l’anno. Inoltre diversi padroni di casa, gli “host”, non sarebbero amatori ma realtà ben strutturate che operano nel mercato online gestendo più d’una proprietà. E ne starebbero traendo grandi profitti, forti del fatto -come ricordano i curatori del report di CEO- che il comparto è in larga misura informale e non regolato. Tutto ciò ha contribuito a produrre uno squilibrio nell’andamento dei prezzi di affitto o acquisto delle case nei centri urbani delle grandi città turistiche -specie in Europa-, che nei casi estremi può portare anche all’espulsione dei residenti e alla trasformazione delle case in strutture ricettive, se non hotel.
“I dati di InsideAirbnb che riguardano le città europee sono abbastanza eloquenti -si legge in Unfairbnb-. Tra il 47 e l’87 per cento degli annunci riguarda l’affitto di intere case o appartamenti, con l’indicazione che l’host non si troverà nello stabile durante la permanenza. Alcuni affittano i loro appartamenti mentre sono in vacanza, o sono temporaneamente assenti per altri motivi. Tuttavia, quando si guarda al numero di annunci con ‘alta disponibilità’ -cioè disponibili per tre mesi o più- sembra che ci sia una netta presenza di luoghi utilizzati principalmente o esclusivamente a scopo di locazione. E su questo argomento anche le città che hanno introdotto limitazioni sugli affitti a breve termine si collocano in buone posizioni in classifica: come Amsterdam (28,1%), Berlino (38,2%) e Parigi (34,4%)”.
Il cambiamento profondo della natura del portale online nato nel 2008 per promuovere “l’ospitalità in soggiorno” è un problema, tenendo conto poi del fatto che il colosso americano opera in Europa attraverso la “Airbnb Ireland UC”, società “madre” domiciliata nel Paese a fiscalità agevolata, mentre nei singoli Stati lo fa attraverso piccoli satelliti che svolgono attività di marketing -in Italia è il caso della Airbnb Italy Srl (1,9 milioni di euro di fatturato nel 2016 e 16 addetti al 31 dicembre 2017)-.
In alcune città è scattata la protesta contro la piattaforma che alla fine del 2016 gestiva ben 2,8 milioni di annunci pubblicati in tutto il mondo (il suo principale concorrente, HomeAway, acquistato nel 2015 da Expedia per competere con Airbnb, era staccato a 1,2 milioni). Nella capitale portoghese è comparsa una scritta a pennarello nel cuore del battuto quartiere dell’Alfama: “Caro turista: spendendo il tuo denaro nel centro di Lisbona con Airbnb sostieni l’espulsione dei residenti e distruggi ciò che sei venuto a vedere”. E così ad Amsterdam, Barcellona, Berlino, Bruxelles, Parigi. “Anche se questa dinamica non è certamente l’unico motivo della scarsa disponibilità di alloggi a prezzi accessibili -chiarisce CEO-, si pensi alla speculazione nel settore immobiliare o alla bassa priorità data all’edilizia popolare, è chiaro che porre al di fuori di un mercato regolare decine di migliaia di appartamenti e case in affitto ha un effetto”.
Dopo anni di laissez faire, quindi, diverse amministrazioni locali hanno rotto gli indugi e iniziato a metter mano alle regole del settore “locazioni”. Come? “Ponendo ad esempio un limite al tempo in cui un appartamento può essere affittato -spiega UnfairBnB-, limitando il numero di permessi, o vietando l’uso di appartamenti per determinati scopi. A seconda delle circostanze, le norme sono state poi integrate da regimi di autorizzazione o sanzioni pecuniarie. Queste regole vengono contrastate anche in tribunale, ma stanno avendo un effetto in termini di difesa dello stock di appartamenti in affitto sul mercato ‘regolare'”.
A Parigi la lotta alle “case bancomat” ha preso la forma della “regola del risarcimento”: chi sottrae il proprio appartamento al mercato regolare degli affitti è obbligato ad acquistare un immobile commerciale e a trasformarlo in uno residenziale. Una norma abbastanza disapplicata che è stata irrobustita nel 2014, prevedendo che le nuove proprietà acquistate per rispettare la compensazione dovessero trovarsi nella stessa circoscrizione, onde evitare speculazioni. Ed è stato introdotto anche l’obbligo di registrazione.
Ancora nel 2014 a Barcellona è stato sospeso il riconoscimento dei permessi per l’utilizzo di appartamenti in affitto a breve termine nel centro città (la Ciutat Vella), in attesa di nuove regole. L’anno successivo tutte le nuove licenze sono state congelate e un gruppo di ispettori è stato incaricato di trovare immobili non registrati elencati tra gli annunci su Airbnb. Da lì è partita una battaglia legale molto aspra che ha portato a una multa di 600.000 euro sia per Airbnb sia per HomeAway per aver infranto le regole. Nel luglio 2017 è stato trovato un accordo che poneva in capo ad Airbnb l’onere di contribuire al contrasto degli annunci illegali. I negoziati sono ancora in corso.
Amsterdam, spiega il CEO, aveva invece imboccato una strada diversa. Nel gennaio 2014 il consiglio comunale aveva infatti sottoscritto un accordo con la piattaforma per agevolare gli affitti ponendo un limite di due mesi all’anno. In cambio, Airbnb avrebbe aiutato le autorità a combattere gli “alberghi illegali”. Ma con appena 22 ispettori sul posto di lavoro e un numero crescente di segnalazioni, Amsterdam si è ritrovata scoperta. Ecco perché dal 2017 tutti gli ospiti hanno l’obbligo di registrarsi presso le autorità e dal gennaio 2018 il periodo consentito è stato dimezzato.
Ma l’opposizione più dura che Airbnb ha incontrato in Europa è stata quella di Berlino. Nel maggio 2016, a fenomeno delle “case bancomat” esploso, il consiglio comunale ha congelato i nuovi permessi di locazione di appartamenti e case in città. L’impianto sembra funzionare: secondo le autorità, 8mila appartamenti sarebbero stati “restituiti” al mercato regolare. Ma la questione finisce in tribunale. Nell’aprile 2017 una corte regionale (Oberverwaltung Berlin-Brandenburg) ha dato ragione all’interpretazione dell’azienda. Ma il passo indietro non è arrivato e nel marzo 2018 le regole sono state addirittura inasprite.
La reazione di Airbnb e degli altri protagonisti del settore (HomeAway, appunto), anche attraverso l'”associazione di categoria” European Holiday Home Association, non si è fatta attendere. Corporate Europe Observatory l’ha definita una autentica “offensiva di lobby” che come destinatario ha la Commissione europea. Airbnb Ireland UC, non a caso, è iscritta dal 2015 al Registro per la trasparenza nelle attività di lobby a Bruxelles. Impiega tre persone, coordinate dal responsabile delle relazioni con l’Ue Patrick Robinson, e nel 2016 ha investito in queste “attività” tra i 400mila e i 500mila euro. Il confronto è sulla “percezione” di questi colossi al centro della (presunta) “economia collaborativa”, sostenuta fortemente dalla Commissione europea. E per soggetti come Airbnb è fondamentale la discussione che riguarda le due direttive europee sui servizi e sul commercio elettronico.
Le città sanno bene che il rischio di una regolamentazione svantaggiosa da parte della Commissione potrebbe determinare la caduta delle loro iniziative, specie se dovessero essere avviate procedure di infrazione destinate a finire dinanzi alla Corte di giustizia dell’Unione. È il motivo per cui, nel gennaio 2018, otto rappresentanti dei grandi centri interessati ha scritto alla Commissione chiedendo di promuovere regole che garantiscano l’accesso a tutti i dati provenienti da soggetti come Airbnb. “Le piattaforme ora possono evitare di condividere dati con noi, ed è una cosa folle,” ha detto Laurens Ivens, vicesindaco di Amsterdam. “I dati includono chi sono i proprietari e chi sono gli affittuari: lo trovo molto pertinente, ma nel momento in cui lo chiediamo alle piattaforme, queste si rifiutano opponendo norme europee in materia di commercio elettronico”. Maxime Cochard, dell’ufficio del vicesindaco di Parigi, è stato più diretto: “L’Unione europea non ha fornito agli Stati e alle grandi città strumenti giuridici per regolare meglio il mercato per affrontare il problema delle pratiche fraudolente delle piattaforme. Più in generale, l’Ue non ha adottato un testo a sostegno del diritto all’alloggio e dell’accessibilità degli alloggi nelle metropoli. Non dovremmo dare il via libera a norme internazionali che attribuiscono tutti i poteri alle multinazionali e nessuna agli Stati”.
“Se vogliamo difendere il nostro diritto a un alloggio a prezzi accessibili, e se non vogliamo che zone delle nostre città si trasformino in morti parchi a tema turistici, dobbiamo agire ora”, concludono gli analisti di Corporate Europe Observatory. Parigi, Berlino, Amsterdam e Barcellona sono solo la punta dell’iceberg.
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