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Diritti / Intervista

Una coalizione di solidarietà globale per cambiare il mondo dopo Covid-19

© David Vine

La crisi che ha sconvolto il Pianeta ha messo in luce le strutture globali di iniquità e violenza. Una rete di attivisti da 20 Paesi vuole superarle e lancia un manifesto. Intervista al promotore, l’antropologo David Vine, ispirato dal movimento No War

Tratto da Altreconomia 228 — Luglio/Agosto 2020

Ci sono sempre quattro orari diversi nelle email che convocano le riunioni della “Covid-19 Global Solidarity Coalition”: il fuso orario del Pacifico, quello europeo, cinese e giapponese. In un unico momento, una volta alla settimana dal marzo 2020, un gruppo di persone si incontra virtualmente per costruire -nella realtà- un mondo migliore. “La crisi Covid-19 ha rivelato l’urgenza di cambiare le strutture globali di iniquità e violenza”, spiegano nell’introduzione al manifesto che hanno presentato online a metà maggio e che a inizio giugno era stato firmato da 3mila persone (disponibile anche in italiano: covidglobalsolidarity.org). La coalizione -che riunisce soggetti provenienti da oltre 20 Paesi e circa 60 persone costantemente attive- è nata su stimolo di David Vine, docente di antropologia all’American University di Washington D.C. e attivista. Lo abbiamo intervistato.

Come è nata l’idea di una coalizione di solidarietà globale?
DV La quarantena mi è sembrata un’opportunità unica per mettere in contatto le persone che, in tutto il mondo e oltre i confini nazionali, stavano vivendo esperienze comuni drammatiche -come la perdita dei propri cari o del lavoro, il confinamento in casa-, per darci supporto reciproco e condividere delle riflessioni. La mia sensazione è che in questo momento storico le persone si stiano rendendo conto della necessità di grandi cambiamenti strutturali nei Paesi di tutto il mondo. Da qui l’idea di avviare un dialogo per iniziare a immaginare questi cambiamenti e costruire un mondo migliore. O almeno provarci.

Il fil rouge che unisce i partecipanti è l’esperienza nei movimenti No War di diverse parti del mondo, fondamenta del manifesto.
DV Il modo in cui il movimento globale pacifista, contro le basi militari e No War è stato capace di organizzarsi superando i confini nazionali è stato per me di grande ispirazione. Gli attivisti dell’isola giapponese di Okinawa si sono messi in contatto con quelli colombiani; chi resiste nell’atollo militarizzato di Diego Garcia -un territorio britannico nell’oceano Indiano- ha incontrato chi si oppone alle basi statunitensi in Italia e Germania, solo per fare due esempi. Questo modello mi ha ispirato nella costruzione di una connessione sul piano transnazionale al tempo del Covid. E nel manifesto abbiamo posto forte enfasi sulla necessità di trasformare un sistema economico fondato sulla guerra verso programmi governativi che si occupino dei bisogni umani, dell’assistenza sanitaria, della casa, dell’istruzione, del reddito di base e -naturalmente- di dare risposta alle pandemie.

Un’icona del “Manifesto di solidarietà globale Covid-19” cui hanno contribuito attivisti da oltre 20 Paesi

Come continua ora il lavoro della coalizione?
DV Il manifesto è una visione del mondo che vogliamo costruire. Ma ora dobbiamo chiederci come possiamo lavorare insieme per progredire in questi obiettivi. Un’idea è quella di avviare un gruppo di lavoro per ciascuna delle nove richieste del manifesto. Intanto, stiamo mappando altre realtà che si stanno organizzando in modo simile al nostro, sul piano globale, per provare a collaborare. Penso, ad esempio, a chi nell’aprile 2020 ha scritto il “Manifesto femminista transnazionale” o a Progressive International (progressive.international) di cui fanno parte politici e intellettuali importanti. Allo stesso tempo, non vogliamo che la coalizione sia limitata solo a chi si identifica con “la sinistra”. Le nostre richieste, in fondo, sono condivise da uno spettro politico sempre più ampio. Pensiamo agli Stati Uniti: oggi per alcuni conservatori il reddito di base è una buona idea. Quattro mesi fa, sarebbe stato quasi impossibile. È solo un esempio che ci dice come le trasformazioni portate dal virus stiano aprendo nuove strade. Un altro sono le recenti proteste negli Stati Uniti dopo l’omicidio di George Floyd: che la violenza della polizia sia un problema è ormai un’idea condivisa. Persone di diverse appartenenze politiche chiedono oggi una riforma del sistema di polizia negli Stati Uniti, e non solo lì.

In che modo le rivendicazioni del movimento “Black Lives Matter” hanno intersecato le vostre?
DV Una delle principali richieste dell’intero manifesto è la riduzione delle violenze. Di tutti i tipi di violenze: di guerra, economica, politica, di Stato, della polizia e delle forze dell’ordine, che spesso colpiscono le popolazioni più vulnerabili ed emarginate, i gruppi etnici stigmatizzati o a volte le persone disabili. Che, tra l’altro, insieme agli anziani sono state anche le persone colpite in modo sproporzionato dal virus. Perciò, le proteste per l’omicidio di Floyd, e di tanti altri afroamericani, hanno ispirato la coalizione a lavorare ancora di più, per mettere il tema dei diritti al centro delle nostre pratiche. Riprendendo uno slogan delle proteste -“I can’t breathe”-, penso che il nostro lavoro insieme sia una boccata d’aria: un’occasione per respirare nuove idee che superano i confini.

In tempi di didattica a distanza, pensi che il “Manifesto di solidarietà globale Covid-19” possa avere anche un ruolo educativo?
DV Nel nostro gruppo c’è la consapevolezza che non possiamo solo sperare che il mondo cambi: abbiamo bisogno di visioni concrete per costruire un mondo diverso. Se non lo facciamo, i potenti sfrutteranno questa opportunità per rendere il mondo un posto peggiore, per aumentare il loro potere e la loro ricchezza, e per aumentare le disuguaglianze e la repressione. Perciò non dobbiamo solo organizzarci e lavorare insieme, ma anche contribuire a cambiare le pratiche. Per farlo, un buon punto di partenza sono i giovani e le scuole. Sarebbe bello chiedere agli studenti di diverse parti del mondo di scrivere i loro manifesti, come individui, ma anche come classi o gruppi di studenti, a partire dalla domanda: “Che tipo di mondo vorresti vedere? Quali cambiamenti pensi che debbano avvenire nel mondo?”. Sospetto che le loro conclusioni sarebbero molto vicine alle nostre. Siamo in tanti a voler crescere in un mondo più giusto, più equo, più pacifico, un mondo in cui il denaro non viene investito in armi, basi militari e guerre ma nel benessere delle persone.

Di economia di guerra scrivi in un nuovo libro che sarà pubblicato nell’ottobre 2020 dalla University of California Press: “The United States of War”. Di cosa parla?
DV L’idea di fondo è che se un governo costruisce delle basi militari al di fuori dei propri confini, le guerre saranno la conseguenza. La storia degli Stati Uniti lo dimostra: quando hanno costruito delle basi militari all’estero, queste basi hanno alimentato nuove guerre. O meglio, hanno fatto sì che gli Stati Uniti combattessero più guerre. Ed è una storia che si ripete: gli Stati Uniti fanno una guerra; costruiscono le basi militari per intraprendere quella guerra; dopo la guerra, mantengono in funzione quelle basi, che poi portano più guerre e poi a più basi e ancora a più guerre.

“Se un governo costruisce delle basi militari al di fuori dei propri confini, le guerre saranno la conseguenza. La storia degli Stati Uniti lo dimostra: quando hanno costruito basi all’esteri, queste basi hanno alimentato nuove guerre”

Infatti, riferendoti agli Stati Uniti, parli di “guerra permanente”. Cosa intendi con questa espressione?
DV Gli Stati Uniti sono stati coinvolti in una guerra o in un’invasione militare in un altro Paese ogni anno della loro storia dall’indipendenza del 1776, con l’unica eccezione di 11 anni. In qualche modo, hanno avuto un sistema di guerra permanente da dopo l’indipendenza. Soprattutto dall’invasione dell’Afghanistan nel 2001, il governo Usa ha creato un sistema di guerra permanente ancora più potente e pericoloso, di cui non si vede la fine. Non molti sanno che nelle sole guerre in Afghanistan, Iraq, Yemen, Libia e Somalia (le guerre dopo l’11 settembre) si stima siano morte 3,1 milioni di persone che sono più di quelle morte durante la guerra in Vietnam. È straordinariamente triste, ma anche pericoloso, per il mondo e per gli Stati Uniti stessi.

Nel libro proponi qualche soluzione?
DV Troppi autori, anche critici verso la politica degli Stati Uniti, si concentrano sull’identificazione dei problemi senza pensare alle soluzioni. Perciò, anche se non ho tutte le soluzioni, mi sono sforzato di cercarle. La prima: la chiusura delle basi militari Usa all’estero inutilizzate. In particolare, propongo di fare un’accurata analisi della necessità di esistere di ogni singola base militare statunitense al di fuori degli Stati Uniti, per avviare questo processo di chiusura. Questo non significa la ritirata degli Stati Uniti dal mondo ma la sostituzione delle presenze militari con forme nuove di impegno pacifico, diplomatico, politico, culturale ed economico.

Un altro tema centrale è una massiccia riduzione della spesa militare statunitense. Gli Stati Uniti sono il primo Paese per spesa nelle forze armate e spendono più dei dieci Paesi che li seguono messi insieme (e la maggior parte di questi dieci sono alleati degli Stati Uniti). Un terzo aspetto: avviare un processo di deimperializzazione degli Stati Uniti. Nel libro discuto di come gli Stati Uniti siano stati un impero fin dalla loro indipendenza. Prima o poi, tutti gli imperi cadono: in questo caso, possiamo scegliere come farlo. L’impero degli Stati Uniti si può autodistruggere o disgregare con la violenza -come è stato per gli imperi francese e britannico- oppure, più saggiamente, avviare un processo pacifico di riforma di quel sistema.

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