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Un soldato a processo per l’omicidio di Andy Rocchelli: un caso controverso

Il 24 maggio 2014 furono uccisi in Ucraina il giornalista freelance italiano e il collega russo Andrej Mironov. La Corte d’Assise di Pavia ha condannato in primo grado il soldato ucraino Vitaly Markiv e la parola ora spetta alla Corte d’Appello di Milano. La ricostruzione però desta più di una perplessità e merita un’attenta analisi, come spiega Enrico Zucca, sostituto procuratore generale di Genova e pm del processo per le torture alla scuola Diaz nel 2001

Non è spesso così chiaro a tutti il fatto che nel processo penale il soggetto debole sia l’imputato, destinatario di garanzie che lo preservano dall’azione promossa contro di lui dallo Stato. Lo scudo che lo difende è il principio dell’onere della prova che deve dimostrare la sua colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio: per questo in diversi sistemi accusatori di common law addirittura è l’accusa, su cui grava quell’onere, che ha l’ultima parola, non la difesa, come invece generalmente si crede. L’empatia per la vittima non può prevalere su quello scudo e diventare il centro dell’attenzione del giudice. La tutela della vittima e della collettività dovrebbero, infatti, entrare in gioco solo dopo la certezza della colpevolezza, mai prima. Nei casi sensibili questi confini si perdono un poco. Si soddisfa l’emotività del momento ma si rischia di incrinare il sistema in modo duraturo. La pressione del pubblico e la richiesta di giustizia delle vittime mettono a dura prova l’indipendenza del giudice, la cui funzione trova legittimazione non nel consenso, ma nella sola legge senza altra mediazione. Qualcuno li chiama processi popolari, il pericolo è che l’imputato entri nell’aula di giustizia già colpevole.

Purtroppo questa è la sensazione che si ha leggendo la sentenza della Corte di Assise di Pavia, ora in discussione nel grado di appello a Milano, che ha condannato Vitaly Markiv, cittadino ucraino, ma anche italiano, ritenuto responsabile di aver concorso, durante un’azione militare condotta il 24 maggio 2014, nel ferimento del fotografo francese William Roguelon, nell’uccisione del giornalista freelance italiano Andrea Rocchelli e del giornalista russo Andrej Mironov. Quali osservatori del conflitto allora in corso nell’Est dell’Ucraina, le vittime erano giunte sul fronte di combattimento tra l’esercito regolare ucraino, coadiuvato da un battaglione della Guardia nazionale, dove era arruolato il Markiv, schierati su una collina a difesa di un’antenna televisiva e, dall’altra parte, i gruppi armati dei cosiddetti separatisti filorussi a ridosso della città di Sloviansk, da questi ultimi occupata e oggetto di un’imminente offensiva delle forze governative nazionali. Markiv era, all’epoca dei fatti, poco più che un soldato semplice, inquadrato in uno schieramento di circa 150 uomini cui viene addebitato interamente il fuoco che ha raggiunto le vittime, in particolare alcuni colpi di mortaio con l’esito letale.

Azioni militari, soldati e comandanti
In occasioni del genere, quando si tratta di azioni militari che coinvolgono eserciti si è abituati, nei processi che di solito si svolgono dinanzi a tribunali speciali internazionali, a vedere incriminati in primo luogo i comandanti, in forza della rigida struttura gerarchica di quei corpi che ne caratterizza l’operare e quindi la responsabilità dell’azione, una responsabilità che il diritto internazionale penale qualifica proprio come command responsibility o superior responsibility, talora estesa anche oltre i confini della responsabilità diretta del concorso di persone. Alla responsabilità dei comandanti, in mancanza della prova di ordini impartiti, si risale comunque anche indirettamente, se si riconosce che non hanno esercitato diligentemente un controllo pregnante per prevenire o impedire il comportamento illegale dei subordinati. Nel nostro ordinamento penale la formula del concorso di persone è tuttavia molto ampia ed elastica per attrarre nell’ambito della responsabilità diretta di un evento anche contributi di partecipazione minori. Certo, richiamare e dimostrare la responsabilità del singolo appartenente alla truppa invece dei comandanti, in un contesto d’azione militare governato dalla cogente gerarchia, costituisce un dato eccentrico. Nel condannare definitivamente due ufficiali delle SS naziste per l’eccidio di Sant’Anna di Stazzema, la Cassazione ha ritenuto che tre soldati appartenenti ai battaglioni impegnati nella rappresaglia contri civili inermi, donne e bambini, fossero stati correttamente considerati come testimoni e mai neppure indagati come corresponsabili, non essendo sufficiente come prova del loro concorso nel crimine la presenza effettiva sui luoghi e l’appartenenza a quelle formazioni che avevano agito compattamente sotto il comando di quegli ufficiali. I soldati dissero semplicemente che loro non avevano sparato (Cass. pen. Sez. 1, Sentenza n. 4060 del 08/11/2007, Sommer ed altri).

Le reazioni contrapposte dopo la sentenza di primo grado
La condanna del soldato Markiv ha suscitato reazioni contrapposte, amplificate dal perdurante aspro conflitto che caratterizza la questione ucraina per com’è percepita all’esterno attraverso le rappresentazioni veicolate dai media, fortemente inquinate da operazioni di propaganda e disinformazione organizzate, un dato che rende difficile, per tutti, ma inevitabilmente anche per i giudici, comprendere gli avvenimenti e le dinamiche di una guerra che ha causato migliaia di vittime, morti, feriti, dispersi, profughi e violazioni eclatanti dei diritti umani. La sentenza offre comunque occasione di riflessioni sulle difficoltà di mantenere fede qui e ora a principi che presiedono al sistema giudiziario in un paese democratico secondo uno standard che viene predicato ad altri, ma che deve soprattutto essere praticato.

Il caso è stato oggetto addirittura di una segnalazione alle istituzioni europee perché vigilino sul prosieguo del procedimento. Senza entrare nelle polemiche degli schieramenti, ma senza ignorare che il tema è degno della massima allerta, è utile evidenziare le incongruenze e le perplessità che desta la condanna pronunciata, ora più che mai in pendenza del giudizio di appello che dovrà farsi carico, impregiudicata la libera valutazione dei giudici in ogni direzione, di ristabilire più solide premesse del ragionamento probatorio e, soprattutto, di rimediare a un approccio non sufficientemente ponderato, che rischia di minare l’autorevolezza e persuasività della decisione.

Le incongruenze e le perplessità
La Corte d’Assise di Pavia ha scelto la via della semplificazione, rifiutando di considerare i fatti in un contesto di guerra. Anche i conflitti armati, spiega la Corte, sono regolati dalle norme del diritto umanitario internazionale che impongono di non coinvolgere i civili. Ma nel caso del soldato Markiv la guerra non c’entra, si è proprio trattato di una lucida e deliberata azione diretta all’uccisione di civili. Per i giudici in quel momento non era neppure in corso alcun combattimento tra gli opposti schieramenti: è quindi esclusa anche l’ipotesi di uno spiacevole, ma inevitabile “danno collaterale”. Il contesto di guerra, la posizione di un subordinato all’interno di una struttura militare non sono neppure presi in considerazione per valutare il grado di effettiva responsabilità dell’imputato. Cacciato dalla porta, quel contesto rientra tuttavia dalla finestra quel tanto che basta per svelare un’evidente approssimazione nel comprendere il teatro reale in cui a migliaia di chilometri di distanza si sono svolti i fatti che si tratta di ricostruire.

Voglio essere garbato: la situazione descritta e accreditata dalla Corte di Assise di Pavia è paradossale e accettarla significa ignorare lo scenario ricostruito da tutti gli organismi internazionali che hanno monitorato e analizzato lo svolgersi del conflitto. Questo a prescindere dal già significativo incipit che scambia la dichiarazione di indipendenza dell’Ucraina (1991) con gli avvenimenti seguiti alle proteste di massa del Maidan (2014).

La guerra ultramoderna e i rapporti degli osservatori indipendenti
È alieno dal ragionamento il carattere peculiare di questa guerra ultramoderna ai confini dell’Europa, prototipo di una guerra ibrida, com’è stata definita, o unrestricted warfare. Il conflitto in corso non ha fronti definiti, non ha eserciti regolari contrapposti, con divise ed emblemi riconoscibili, campi di battaglia precisi, si combatte con ogni arma, con la tecnologia, ma anche con la propaganda e l’informazione, la linea tra la guerra e la pace è mutevole in ogni momento. Come descritto nei rapporti delle istituzioni internazionali dell’Onu, quali l’Alto Commissariato per i diritti Umani, nella Missione Speciale di osservazione in Ucraina, i tragici eventi si collocano nel corso di una controffensiva dell’esercito nazionale per riconquistare il territorio caduto nelle mani delle bande armate che avevano preso il controllo delle regioni di Donetsk e Luhansk e delle principali città, occupando edifici pubblici e i centri di governo locale, in un clima di violenza e terrore, provocando uno stato di completa assenza di regole. I gruppi armati stavano da tempo ricevendo consistenti aiuti esterni in termini di equipaggiamenti, armi in dotazione ed anche uomini. Il carattere internazionale oltre che interno del conflitto si stava rendendo evidente per poi, a fatto compiuto (l’annessione della Crimea), essere sfacciatamente ammesso. Nella apparentemente asettica ricostruzione dei giudici vi sono semplicemente due “fazioni”: non da una parte un esercito regolare sul proprio territorio invaso e dall’altra parte forze secessioniste da considerare, come si conviene per uno Stato sovrano, gruppi di terroristi (qui basta essere contro il Tav perché qualcuno usi la definizione). È con malcelato sarcasmo che la Corte quel termine lo usa, ma solo “per dirla con la Difesa”. La Corte ha trovato addirittura un movente per l’azione omicidiaria e usa parole dure: “l’annientamento” fisico dei giornalisti considerati nemici dalle truppe dell’esercito ucraino ed invece -questo il quadro che viene offerto- accolti e rispettati per il loro lavoro nelle zone controllate dai filorussi. Per accreditare questo movente viene citato un rapporto dell’OSCE (Organizzazione per la sicurezza e cooperazione in Europa), prodotto dalla parte civile, dedicato alla denuncia di circa 300 episodi di attacchi contro i giornalisti (che includono rapimenti, intimidazioni, maltrattamenti e omicidi), verificati anche nel periodo dell’uccisione di Andy Rocchelli e Mironov. I rapporti di quegli osservatori indipendenti, compreso quello citato dalla Corte, dicono infatti l’esatto contrario e cioè che proprio nelle zone controllate dai secessionisti coadiuvati da militari stranieri si stavano verificando quegli attacchi alla libertà di stampa e di espressione, parte di una campagna imponente di disinformazione totale che ha caratterizzato soprattutto la prima fase del conflitto, allora in atto. Ciò che viene documentato come caratteristica del conflitto è il ruolo cruciale di questa “propaganda” (si veda nota 1 in fondo). La Corte dunque inconsapevolmente si schiera, attribuendo comportamenti e atteggiamenti non verificati e contrastanti con quelli risultanti dalle fonti attendibili internazionali, fino a evocare un contesto d’illegalità in cui s’inserirebbe deliberatamente l’azione ascritta all’imputato e all’esercito ucraino.

Sulla collina di Karachun. Markiv diventa il protagonista quasi esclusivo dell’evento criminale
Mentre quest’ultimo sulla collina di Karachun presidiava un’antenna televisiva, nella citta di Sloviansk le bande separatiste bombardavano torri televisive per impedire le trasmissioni dei canali ucraini (nota 2). Pur non potendosi negare che le forze ucraine abbiano in seguito reagito purtroppo sullo stesso terreno con azioni dirette a limitare la libertà di espressione, nella fase in cui si collocano gli eventi l’azione compatta di controllo intimidazione e censura delle fonti giornalistiche è obiettivo primario delle forze separatiste.

Ecco che, pur dovendo comprendere l’azione personale del soldato Markiv nell’agire della struttura militare dislocata sul campo, utilizzando la formula del concorso nel reato, la Corte inopinatamente riesce a fare dell’imputato il protagonista quasi esclusivo e quindi determinante dell’evento criminale. All’imputato viene, infatti, addebitato: di aver visto l’arrivo dei giornalisti sui luoghi portati da un taxi, di averli riconosciuti come tali dalle caratteristiche della vettura e dal loro equipaggiamento e quindi (con il movente già accennato) di averli fatti oggetto di fuoco con le armi leggere in dotazione. Ancora: di aver poi, nel ruolo di osservatore, fornito le coordinate per il tiro dell’artiglieria pesante che, così guidato dal Markiv unico soggetto asseritamente deputato a mantenere contatti con l’esercito, riusciva a dirigere i colpi di mortaio e a colpire i giornalisti che si erano rifugiati in un fossato coperto da vegetazione. Finalmente, di aver fatto fuoco contro i superstiti nella loro via di fuga. Le principali obiezioni difensive sotto il profilo dei dati tecnici sono state disattese. In relazione alla consapevolezza al momento dell’avvistamento della qualità di civili delle vittime si è sostenuto, infatti, sia l’impossibilità o estrema difficoltà di poter distinguere se non delle sagome a oltre un chilometro e mezzo, dalla postazione che occupava asseritamente il Markiv, sia conseguentemente quella della portata del tiro dell’arma in dotazione, essendo le vittime bersagli oltre la distanza per un tiro cosiddetto utile, che non va oltre i 600 metri. La Corte ritiene invece di poter raggiunger la certezza che si tratta di fuoco unilaterale proveniente dalla “fazione ucraina”, escludendo l’apporto dei gruppi armati degli insorti che avevano base in una fabbrica dismessa davanti alla quale erano scesi dal taxi i giornalisti. La provenienza del fuoco è uno dei capisaldi dell’accertamento dei fatti da parte della Corte, più importante, per l’accusa, della stessa responsabilità penale dell’imputato, se è vero che il pubblico ministero avrebbe rinunciato all’appello in caso di assoluzione, “purchè fosse stabilito che fosse stato l’esercito ucraino a sparare sui giornalisti”, secondo dichiarazioni riportate dai media. Un atteggiamento, va detto, che poco si concilia con lo scopo unico del processo penale che è invece la dimostrazione della responsabilità personale.

I punti deboli della sentenza di primo grado
Eppure non tutto quadra. Vediamo alcuni punti deboli della sentenza, sia nell’accertamento dei fatti, sia nella valutazione della prova. Non si spiega per quale ragione poco prima che iniziasse il fuoco di armi leggere i giornalisti fossero stati avvertiti della presenza sui luoghi di un cecchino, da parte di un ragazzo sbucato all’improvviso e che li invitava a indietreggiare e trovare riparo. Strano modo di avvisare, nel caso il pericolo fosse stato il fuoco proveniente dall’esercito ucraino compattamente schierato sulla collina a quasi due chilometri di distanza. Il cecchino, al contrario, fa fuoco entro l’ambito del proprio tiro utile. Non si spiega per quale ragione nell’ultima fase, quando i superstiti cercavano una via di scampo uscendo dal riparo che non li aveva protetti, fossero stati investiti da scariche di kalashnikov provenienti dai filorussi, che cessarono il fuoco, sebbene non troppo convinti, soltanto dopo aver udito il grido disperato del fotografo francese che si qualificava come giornalista, tanto che con le armi ancora puntate addosso a quest’ultimo riferisce di aver avuto paura di morire. Non si spiega come i gruppi armati degli insorti non si siano resi conto prima della qualità di giornalisti delle persone giunte davanti alla loro roccaforte, se ciò era evidente da più lontano ove era schierato l’esercito nazionale. Né si spiega infine agevolmente come sia stata sottovalutata una registrazione audio del colloquio in lingua russa tra Mironov e il ragazzo che aveva avvisato della presenza del cecchino secondo il quale erano capitati in mezzo ad un fuoco incrociato con artiglieria pesante da entrambe le parti.

Lo stesso testimone sopravvissuto, il francese Roguelon, sulla cui deposizione la Corte pensa di fondare il ragionamento probatorio, si era mostrato incerto sull’esatta provenienza dei colpi e del fuoco asseritamente unilaterale, nelle sue precedenti dichiarazioni più prossime allo svolgersi dei fatti. È solo davanti ai giudici della Corte d’Assise che recupera invece la certezza. Ma è davvero così? Un passo della sentenza desta serie perplessità. È bensì vero che in seguito al serrato controesame il testimone ha ammesso di non essere più sicuro della provenienza dei colpi, la Corte nota stigmatizzando la difesa per essersi spinta a menzionare questo cedimento del testimone, ma ciò è irrilevante perché il teste era provato dopo ore di domande serrate. Viene da dare ragione agli estremismi delle Camere penali italiane quando denunciano l’insofferenza verso il ruolo del difensore che, in questo caso, ha invece centrato in pieno l’obiettivo del contraddittorio per un affidabile accertamento dei fatti.

La prova indiziaria e quell’articolo pubblicato sul Corriere della Sera
Ma il punto da dimostrare è la consapevolezza da parte di chi faceva fuoco di colpire un bersaglio civile, comunque persone estranee ai contendenti sul piano militare. A parte l’apodittica affermazione dei giudici che all’arrivo dei giornalisti non fosse in atto un combattimento, come se chi fosse giunto sul posto potesse rendersi conto di quello che era successo anche solo dieci minuti o qualche ora prima, qui viene in gioco la presenza del Markiv che sarebbe stato in grado, in virtù della sua posizione sul campo e del suo ruolo, di rendersi conto per primo dell’arrivo dei giornalisti che poteva riconoscere come tali dal fatto che scattavano foto appena scesi dall’auto. La posizione del Markiv è stata ricostruita sulla base delle sue dichiarazioni, di filmati che lo ritraevano qualche giorno dopo in una determinata postazione e con l’equipaggiamento e l’armamento in dotazione, tra cui un fucile con cannocchiale. Il quadro indiziario porta alla ragionevole ipotesi che anche il giorno del fatto il Markiv fosse in tale postazione e con il ben preciso ruolo di osservatore.

La prova indiziaria è una prova seria e vale quanto la prova diretta ma per essere persuasiva oltre il ragionevole dubbio deve portare alle conclusioni partendo da dati certi. Nel caso concreto la prova che proprio in quel giorno e in quell’occasione il Markiv fosse colui che in sequenza aveva avvistato e riconosciuto i civili, fatto fuoco e contribuito alla successiva azione offensiva si basa su dati che di certezza hanno ben poco. La premessa del ragionamento indiziario è, infatti, un articolo scritto da una giornalista freelance del Corriere della Sera, Ilaria Morani, che aveva riportato un colloquio avuto con il Markiv, raggiunto da una chiamata che gli aveva fatto altro giornalista, Marcello Fauci, che lo conosceva bene e che lei aveva sentito in viva voce. L’articolo era il frutto delle informazioni apprese che la giornalista aveva appuntato nel corso della conversazione. Sentiti come testimoni al processo, il Fauci non ricordava esattamente la telefonata pur ritenendo corretto l’articolo che la Morani confermava. Il tenore dell’articolo, nonostante i virgolettati, è all’evidenza, come ammesso dalla giornalista, una sintesi di un colloquio che nulla dice tuttavia non solo della presenza all’azione, ma della stessa consapevolezza di cosa fosse successo. Che il Markiv raggiunto dalla telefonata fosse al corrente della morte di due giornalisti è soltanto una sensazione che gli interlocutori hanno riportato. Appare quantomeno dubbio che i militari ucraini asserragliati nella propria posizione sulla collina, quindi il Markiv , potessero sapere e in tempo reale, se non proprio da fonti esterne, e in primo luogo dalle telefonate ricevute, dei danni causati eventualmente dal loro fuoco in quell’occasione. La Corte sembra supporre che la notizia della morte dei giornalisti in quel contesto fosse conosciuta e conoscibile da tutti. Certamente la notizia ha destato allarme nel nostro contesto, ma a giudicare dai rapporti internazionali, che elencano nel dettaglio ogni episodio in danno di civili e giornalisti, la vicenda di Rocchelli e Mironov ha menzione di sfuggita, senza alcuna descrizione di particolari, essendo purtroppo inserita in quei lunghi elenchi ed episodi di violenze e brutalità contro esponenti dei media di cui s’è detto. Eppure l’inattendibilità di alcune testimonianze dei commilitoni che hanno negato di sapere della morte dei giornalisti si basa su questa congettura, che ciò che si sapeva in ambasciata si sapesse in ogni ambito e sul fronte di guerra. Del resto a dare la notizia della morte parrebbero, com’è ovvio, essere stati i separatisti entro le cui linee si trovavano le vittime. Certo gli appunti di una giornalista non possono assumere il valore probatorio di un verbale di polizia giudiziaria, specie quando smentiti dall’interessato e non ricordati da un presente alla conversazione se non in una generica sintesi. Ovviamente la Corte ha modo di screditare chi non ricorda ascrivendogli parzialità e interesse, facendo divenire certezza quell’articolo che proprio l’autrice in quanto tale non può evidentemente smentire. Neppure è d’imbarazzo per il giudice il rapporto che il Markiv avrebbe continuato ad avere con chi lo aveva chiamato, regalandogli anche un giubbotto antiproiettile, comportamenti questi non spiegabili qualora vi fosse stato il sospetto o la sensazione di un suo coinvolgimento nella morte dei colleghi.

La formula talismanica del “concorso di persone”
Ottenuta così la “certezza” della presenza sulla collina del soldato il giorno dell’evento, si è cercato di individuare ruolo e posizione dello stesso per poter appunto dedurre il comportamento tenuto. La ricostruzione è dunque ipotetica e tratta da materiale documentale, filmati e foto, che dimostrano quale fosse la postazione occupata, il ruolo rivestito secondo il suo inquadramento e gli ordini ricevuti. I filmati non sono coevi, ma di circa due settimane dopo. Quindi a ritroso la Corte ipotizza, con ragionevole probabilità, che le cose stessero così effettivamente nel momento cruciale dell’azione, quel giorno e quell’ora fatali. Probabile, ma non basta. Questo è il punto irrimediabilmente debole che fa crollare la catena inferenziale della prova indiziaria così suggestivamente ricostruita dai giudici. Che si sono concentrati abilmente sulla dimostrazione che a sparare fosse stata la “fazione ucraina”. Da qui per deduzione, con la formula talismanica del concorso di persone, è bastato individuare un soldato, ricostruire il ruolo e inserirlo nell’azione, addossandogli la responsabilità totale. Ma se si tratta di ricostruire la responsabilità individuale del soldato, appaiono a ben vedere ininfluenti le diverse ricostruzioni sulla dinamica dell’azione e con essa tutte le disquisizioni tecniche sulla portata delle armi e sulla loro efficacia causale. Perché prima occorre dimostrare con certezza al di là del ragionevole dubbio cosa ha fatto quel giorno quel soldato. Nulla prova, infatti, che il soldato fosse lì nella sua usuale postazione nel momento cruciale e che avesse visto quello che “avrebbe potuto vedere” e “avrebbe potuto capire”, cioè che quelle sagome a oltre un chilometro e mezzo fossero inequivocabilmente civili, senza alcun legame con i gruppi armati. Perché “avrebbe dovuto sapere” che il taxi, che “avrebbe potuto riconoscere” a quella distanza dall’insegna, portava i giornalisti in quel posto, ove erano in corso combattimenti quotidiani in trincee ed avamposti. Purtroppo la smentita dell’imputato e la negatoria o la reticenza degli altri testi non spostano l’onere della prova che non è assolto dalla costruzione di mere sia pur attendibili ipotesi e congetture. Per dirla con il giurista inglese Lord Salmon, la logica, nelle vicende umane è una cattiva consigliera ed una guida pericolosa.

Se l’onere della prova è a carico della difesa
Alcuni passaggi della motivazione mostrano la perdita di riferimenti essenziali sul piano giuridico. Sulla scorta delle immagini acquisite si deduce il posizionamento dell’imputato. La verifica delle ipotesi sta nel fatto che “non vi sono immagini che mostrino l’imputato in posti differenti”: quindi l’onere della prova è a carico della difesa. E ancora si afferma che un elemento a favore dell’imputato avrebbe potuto essere l’ordine di servizio o la rotazione dei turni, come dicono Markiv e il suo comandante, ma poiché non ve n’è traccia, nessuno ha riferito quali fossero i soggetti di turno il giorno della morte di Rocchelli. Un altro dubbio avrebbe dovuto sorgere per colmare questa lacuna: non è onere dell’accusa provare che l’imputato era di turno quel giorno e a quell’ora, se lui lo nega? Le testimonianze della difesa sono “difformi dalle altre risultanze istruttorie e tra esse contraddittorie ” e quindi “inidonee a scalfire l’univoca e cristallina ricostruzione offerta dalla pubblica accusa”. Quindi le testimonianze valgono solo se supportano quest’ultima e se sono coerenti tra loro (questo dopo che la Corte ha stabilito come premessa che sono inattendibili perché concordate).

I processi alla polizia per il G8 di Genova 2001
I pubblici ministeri nei processi del G8 si sono trovati alle prese con quell’onere della prova e con problematiche simili dovendo ad esempio ricostruire la responsabilità di un’azione condotta con modalità militare dai reparti della polizia nel raid alla scuola Diaz. Dall’evento ricostruito, l’assalto e le violenze ai danni degli occupanti, qualificate torture, occorreva risalire ai responsabili dell’operazione attuata compattamente da numerosi reparti al comando di diversi funzionari, organizzati anche in quell’occasione secondo linee gerarchiche in atto. Il tema di prova riguardava dunque la responsabilità di ogni singolo agente e dei loro comandanti. La ricostruzione era basata anche sulla ripresa filmata dell’azione d’irruzione nell’edificio e nella dislocazione attuale di ogni singolo partecipante nel teatro dell’operazione. Pur sapendo i nomi dei reparti e degli uomini impiegati e dei loro comandanti e pur essendo un’azione unitaria, una carica indistinta, la pubblica accusa non ha chiamato a rispondere di quelle violenze i partecipanti con la formula del concorso di persone. Né ha chiamato a rispondere i livelli gerarchici apicali che avevano il comando dell’operazione in mancanza della prova di ordini precisi, potendo l’azione essere letta in maniera ambivalente, come spedizione punitiva oppure come degenerazione di un’azione con altri fini e non programmata con tali modalità. Poteva escludersi che pochi soggetti o anche uno soltanto, dentro l’edificio non avessero contribuito alle violenze, non avessero infierito come altri su corpi inermi? La mera presenza in quel preciso momento non bastava. Forse sarebbe bastata per un’incriminazione, non per una condanna. E la documentazione filmata è stata utilizzata per contestare a ciascuno quello che nel frammento temporale considerato stava realmente accadendo. Non quello che era successo qualche secondo prima o qualche secondo dopo. Questo di fronte alle dichiarazioni di tutti gli imputati che facevano muro, deposizioni che negavano l’evidenza e che erano concordate durante le indagini e dietro le quinte a dibattimento in corso, come le intercettazioni in tempo reale avrebbero svelato. Ma i Giudici pur condannando taluno degli imputati non hanno contestato le risibili giustificazioni rese dagli stessi. Perché loro, gli imputati, non dovevano collaborare. Gli alti livelli della polizia, in casa nostra, non hanno parlato al giudice, come ha avuto il coraggio di fare il soldato Markiv.

La trappola dell’imputato-nazista
In maniera piuttosto sgradevole il giudice rimprovera, infatti, all’imputato la mancata collaborazione per l’accertamento della verità, forse non rendendosi conto di richiamare logiche processuali di regimi che appartengono al passato della nazione per cui ha combattuto il soldato Markiv. Quest’ultimo è ancora sottoposto a domande serrate che gli chiedono conto di alcune foto trovate nei dispositivi in suo possesso ritraenti prigionieri e simboli nazisti. Che cosa si è voluto dimostrare e con quale significato indiziario? Sfugge la rilevanza, se non quella di screditare l’imputato e descriverlo come nazista, dedito alla violenza e autore di trattamenti inumani e degradanti nei confronti degli oppositori. La Corte e la pubblica accusa avrebbero ben potuto leggere nei rapporti internazionali qual è la situazione sul fronte di guerra e nei territori occupati e cosa poteva aspettarsi il soldato Markiv se fosse stato catturato. Non si può negare che questi elementi e il sostegno esterno che l’imputato ha avuto abbiano indotto nell’opinione pubblica uno stigma negativo di appartenenza a gruppi di nazionalismo esasperato, di questo giudizio sommario sono testimonianza anche molti articoli di stampa. Né si può negare che la descrizione dell’Ucraina come una nazione in mano ai gruppi estremisti appartenga a quella rappresentazione che è in atto dall’inizio del conflitto. La realtà è che le subculture paranaziste, xenofobe, omofobe e razziste si trovano da entrambe le parti del conflitto, essendo frutto di propaganda la rappresentazione globale delle istituzioni ucraine come espressione di quelle ideologie. Ma i giudici non devono cadere in queste trappole.

La mancata collaborazione dell’Ucraina e quei pulpiti inadeguati
Di pari passo con la costruzione di una personalità negativa e violenta sta la frequente stigmatizzazione della mancata collaborazione delle istituzioni dello Stato dell’Ucraina. Se si tratta di collaborazione all’attività d’indagine svolta dall’autorità inquirente italiana, basti pensare che la stessa Francia cui sono state rivolte richieste investigative non ha mostrato né maggiore solerzia, né idonea considerazione (qui si è potuto discutere solo su foto delle schegge di proiettili repertate dall’autorità francese che non le ha messe a disposizione). Ancora una volta s’ignorano la situazione che ha affrontato lo Stato ucraino e le difficoltà di un Paese in guerra, cui incombeva accertare centinaia di episodi di uccisioni e violazioni eclatanti di diritti umani, a partire dalle vittime della violenza poliziesca del vecchio regime nelle rivolte del Maidan. Un Paese le cui istituzioni, specie quelle inquirenti e giudiziarie, necessitavano di riforme che con grande sforzo sono state negli anni messe in atto, con la pesante ipoteca della compromissione con il vecchio regime. I ritardi nelle indagini sulla morte dei giornalisti Rocchelli e Mironov vanno inquadrati in quel contesto e non meritano approssimativi giudizi da pulpiti inadeguati.

Nel posto sbagliato al momento sbagliato
L’imputato Markiv, schiacciato tra le sue responsabilità e quelle dello Stato, non è stato neppure ritenuto meritevole di un trattamento sanzionatorio contenuto come lo stesso pubblico ministero aveva indicato, la Corte ha inflitto una pena di gran lunga superiore a quella richiesta.

A nessuno dei condannati dei processi del G8 è stato fatto pagare il muro di omertà creato attorno a loro, l’impunito rifiuto della polizia di collaborare con la magistratura, una responsabilità dello Stato sanzionata, come si conviene, solo a livello della Corte europea dei diritti dell’uomo che si occupa, in effetti, della responsabilità degli Stati e non degli individui. Per quei condannati, che rivestivano ruoli apicali nelle istituzioni, è stata anzi trovata, a superare l’onta del verdetto, la formula che abbiano duramente pagato una responsabilità che però è “di sistema”: in sostanza di essersi trovati nel posto sbagliato al momento sbagliato, come ingranaggi di un sistema che richiedeva un’assunzione di responsabilità non evitabile e che dovevano comunque servire. “The wrong place” è singolarmente il titolo della contro-inchiesta che è documentata nel filmato presentato alla Corte d’Appello nel caso Markiv. Ma potranno valere queste considerazioni per il semplice soldato, quell’unico catturato?

La parola alla Corte d’Appello e il messaggio che dovremmo trarre
La Corte d’Appello deve sciogliere ancora molti interrogativi, che non possono essere risolti con qualche battuta; dovrà in maniera più approfondita analizzare il contesto reale dei fatti, ma soprattutto dovrà riportare l’analisi sul terrendo della prova, quella ordinaria che vale per ogni cittadino. Non avrà bisogno di far ricorso allo standard di benevolenza di norma riservata dai giudici alle nostre forze dell’ordine (nei cui confronti pare sconosciuto l’istituto del concorso di persone), che considera talora con eccessivo peso la difficoltà dei contesti in cui si colloca il loro agire per la tutela di noi tutti, perché saremmo a commentare facili assoluzioni e non condanne.

La democrazia vive della libertà di espressione di cui i giornalisti sono protagonisti fino all’estremo, così come dell’indipendenza e della forza dei giudici nell’essere sottoposti solo alla legge. È questo il messaggio duraturo che da questa vicenda dovremmo trarre per noi e soprattutto per i Paesi coinvolti dal conflitto, che su entrambi gli aspetti, ciascuno con maggiore o minore necessità, hanno, lo si sa bene, ancora molto da imparare.

Enrico Zucca è sostituto procuratore generale di Genova. È stato pubblico ministero del processo per le torture alla scuola Diaz durante il summit dell’estate 2001


Note

1. Il lungo elenco di episodi copre un periodo di tempo che va dal novembre 2013 al 23 maggio 2014, diviso dagli autori in due fasi: quella che riguarda i giornalisti impegnati a documentare le manifestazioni e la rivoluzione del Maidan e la seconda fase in cui gli attacchi avvengono nelle regioni del sud est del paese e in Crimea: dei 300 casi poche unità non riguardano azioni la cui provenienza non sia ascrivibile agli oppositori separatisti: https://www.osce.org/files/f/documents/9/7/118990.pdf

Si legge nel rapporto dell’alto Commissariato per i diritti umani dell’Onu del 15 luglio 2014 : “ Nell’est, i tentativi di manipolazione dei media sono stati particolarmente eclatanti. Molti giornalisti che prima lavoravano nell’est sono già fuggiti dopo essere stati rapiti, molestati, intimiditi o minacciati in altro modo. Coloro che rimangono a Luhansk sono stati istruiti dai gruppi armati su come riportare la notizia. Parole come “separatista” e “terrorista” non dovrebbero essere usate, è stato detto loro, e ogni lunedì ci sarebbe stato un incontro con i redattori dei media locali per istruirli su cosa coprire e come. I media sono stati minacciati che se non avessero coperto positivamente le attività dei gruppi armati, le loro attrezzature sarebbero state distrutte e i dipendenti messi in pericolo. E ancora: “Molestie, intimidazioni, manipolazioni e rapimenti di giornalisti hanno continuato a verificarsi nell’est e almeno cinque giornalisti sono stati uccisi dall’inizio dei combattimenti ad aprile. Nessuno di questi giornalisti utilizzava dispositivi di sicurezza personale. Le circostanze intorno a uno degli ultimi casi sono state particolarmente orribili. In un’operazione guidata da un gruppo armato il 30 giugno alla fine del coprifuoco di 10 giorni, un autobus di civili, inclusi giornalisti e un gruppo di donne, è stato inviato nel cuore della notte in una base militare ucraina assediata, mettendo in pericolo le vite dei civili durante un attacco alla base. Ai giornalisti era stato detto che le donne sull’autobus erano madri di soldati e la loro presenza avrebbe assicurato che i soldati ucraini nella base si arrendessero pacificamente. Tuttavia, uno dei giornalisti sull’autobus ha riferito in seguito di aver parlato con le donne e gli è stato detto che nessuna di loro era la madre di un soldato. Gli spari sono esplosi mentre l’autobus si avvicinava alla base militare; l’autista dell’autobus è stato ferito e un giornalista ucciso. Il gruppo armato ha evidentemente “arrestato” uno dei suoi stessi attivisti per aver organizzato questa provocatoria messa in scena.” V. https://www.ohchr.org/Documents/Countries/UA/Ukraine_Report_15July2014.pdf

Il rapporto del 15 giugno 2014 dedica appositi paragrafi alla c.d. propaganda : “L’HRMMU ribadisce l’importanza di contrastare la disinformazione, l’incitamento all’odio, la discriminazione e la violenza. Ad esempio, la “Repubblica popolare di Donetsk” ha negato ogni responsabilità per l’attacco vicino a Volnovakha, sostenendo che è stata la Guardia nazionale “pagata da Kolomoiskiy” a perpetrare questo attacco contro l’esercito ucraino. Il 27 maggio, LifeNews ha pubblicato una foto di un bambino ferito in cui si afferma che è stato colpito a colpi di arma da fuoco all’aeroporto internazionale di Donetsk; tuttavia gli esperti di StopFake.org hanno scoperto che la foto proveniva dalla città siriana di Aleppo nell’aprile 2013. Sebbene la pubblicazione originale su Twitter sia stata cancellata, la foto è stata ampiamente utilizzata per post simili su presunte sparatorie di bambini. Una foto diversa con il corpo di un ragazzo morto in una bara è stata usata per messaggi simili di presunte sparatorie a bambini nell’Ucraina orientale. La foto, invece, è stata realizzata nel 2010, nella città della Crimea Dzhankoy, di un ragazzo ucciso da un criminale locale. Allo stesso modo, vari video sono diventati virali, mostrando presumibilmente o atrocità da parte dell’esercito ucraino, sequestro di complessi “Grad” da parte di gruppi armati, o l’uso di simboli delle Nazioni Unite sugli elicotteri ucraini utilizzati nelle operazioni di sicurezza. È stato anche dimostrato che anche gli originali di tali video sono stati girati in precedenza nella Federazione Russa o in altri paesi e non avevano nulla a che fare con gli eventi attuali in Ucraina. https://www.ohchr.org/documents/countries/ua/hrmmureport15june2014.pdf

2. L’11, 13, 19 e 20 maggio gruppi armati hanno bombardato la torre televisiva di Slovyansk, provocando interruzioni nelle trasmissioni. Il 14 maggio, a Kramatorsk, i gruppi armati hanno bloccato la torre televisiva, che trasmette i canali non solo per Kramatorsk, ma anche Slovyansk, Horlivka e Makiivka”, si legge sempre nel rapporto dell’alto commissariato Onu che dedica ampio spazio a queste operazioni di “censura” e di ostruzione all’accesso alle informazione proveniente dall’Ucraina in favore dei canali russi: https://www.ohchr.org/documents/countries/ua/hrmmureport15june2014.pdf

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