Cultura e scienza / Varie
Un calcio minore
Le donne che scendono in campo sono dilettanti, per scelta altrui, e ciò significa meno diritti -a maternità, pensione- e un budget risicato per la promozione dello sport. Il nostro approfondimento sul calcio femminile
Si può parlare del calcio femminile italiano in due modi. Uno è distruttivo, getta discredito sul settore e lo indebolisce, da almeno trent’anni. L’altro invece è costruttivo, orgogliosamente ancorato al merito delle proposte portate avanti da chi auspica un rilancio del settore, una rinascita. Sui media, però, il primo straccia il secondo, coprendo i contenuti come fosse una cortina di fumo.
Lo sa bene Katia Serra, ex calciatrice italiana, che ha giocato 22 partite a centrocampo con la Nazionale e concluso la sua carriera in Spagna, al Levante, nella stagione 2009-2010. Ora è responsabile del settore femminile per conto dell’Associazione italiana calciatori (AIC), presieduta dal 2011 da Damiano Tommasi (vedi Ae 165), ed è una voce al commento tecnico di Rai Sport. Vorrebbe occuparsi di calcio -come farà in questo articolo-, mettendo a frutto quanto appreso in anni di pratica, o dei problemi enormi del “femminile”. A volte, però, è costretta a difendersi da insulti beceri che in Italia, ciclicamente, condizionano il dibattito sportivo di genere. I più recenti (fine ottobre) sono stati quelli del presidente del Torino Calcio Femminile (in serie B), ex senatore di Alleanza Nazionale, Roberto Salerno, o quelli riferiti nove mesi fa da Felice Belolli, all’epoca presidente della Lega nazionale dilettanti (LND) -che comprende il calcio femminile, insieme al Dipartimento interregionale, il beach soccer e il calcio a 5-: “Basta parlare di dare soldi a queste quattro lesbiche”.
Citiamo i due episodi solo per capire perché, durante la nostra intervista, Katia Serra ricorra più volte alla parola “frustrazione”, sentimento diffuso tra chi -come spiega- “prende atto che i tanti sacrifici fatti per passione non vengono ripagati, riconosciuti, sottolineati. E tutto questo è logorante”. Come prima cosa, Serra invita a non perdersi un video pubblicato nel maggio 2015 sul canale YouTube di Raffaella Manieri, difensore classe 1986 che veste la maglia del Bayern Monaco e della Nazionale italiana. È breve, dura 90 secondi, e ritrae la festa tenutasi a Monaco per lo scudetto 2015 della squadra maschile e della squadra femminile del Bayern. Insieme, sullo stesso terrazzo e sullo stesso piano, destinatari degli stessi cori, ci sono calciatrici e calciatori. In Italia, al contrario, la finale di Coppa Italia 2014-2015, vinta a maggio dal Brescia Calcio Femminile -nello stesso mese in cui Manieri sollevava il piatto del campionato tedesco-, non è stata trasmessa da nessuna emittente tv e le giocatrici, al termine della prestazione, hanno simbolicamente rifiutato di farsi premiare dai dirigenti della Lega o della Federazione italiana giuoco calcio, assegnandosi in proprio trofei e medaglie. “All’estero è normale vivere queste situazioni -racconta Serra-. Cinque anni fa nel Levante era assolutamente normale far parte di una sola società, integrata per genere, riuscendo così a praticare uno sport, in questo caso il calcio, a tempo pieno”. Nel nostro Paese, al contrario, gli uomini in Promozione vengono considerati di più della Serie A femminile e la frammentazione è la cifra caratterizzante. “Ogni singolo comitato regionale ha il proprio campionato -prosegue Serra-, e il numero di chi pratica realmente questo sport talvolta è arrotondato per eccesso. Si parla di 20mila atlete, ma se guardiamo i dati reali non arriviamo a più di 12-13mila”. L’analisi lucida di Serra, e di chi come lei conosce bene il calcio femminile, ha scatenato la reazione di parte dei vertici (maschili) della categoria.
Le parole di Salerno (deferito il 17 novembre al Tribunale federale nazionale dal Procuratore federale per altre ragioni) puntano a coprire uno stato di fatto che, in tutta risposta a quelle dichiarazioni discriminatorie e volgari di metà novembre, ha preso la forma di una lettera aperta promossa dall’Associazione nazionale atlete (Assist, www.assistitaly.it), in cui è stato denunciato lo “stato di arretratezza in cui da sempre sopravvive, sprovvisto di tutele, il calcio femminile”, che ha imposto addirittura di dover “disegnare, tra un tempo e l’altro, le righe del campo all’ultima finale di Coppa Italia”. Ed è proprio con la malaugurata finale di Coppa Italia della primavera 2015 che scatta qualcosa. La FIGC retta dall’estate 2014 da Carlo Tavecchio (passato alla storia per le uscite sulle banane di “Optì Pobà” o gli affari immobiliari degli “ebreacci”) si siede al tavolo delle trattative per riconoscere al settore femminile l’agognata unità e autonomia dalla Lega nazionale dilettanti (retta per 15 anni proprio da Tavecchio). Al tavolo giunge un documento che s’intitola “Regolamento del settore calcio femminile”. Nove pagine, sei articoli, uno scopo: “Quel che a noi premeva -spiega Serra, che con l’AIC è stata una delle parti tecniche promotrici- era iniziare ad avere un unico corpo centrale che riuscisse ad accentrare primi calci e nazionale, ed esercitare il controllo sulle risorse a disposizione e le attività da effettuare, rompendo così la frammentarietà dei comitati regionali, del campionato nazionale soggetto alla LND, del Club Italia, del settore giovanile scolastico, delle componenti tecniche”. Il solo fatto di dipendere dalla LND, del resto, è vissuto dalla categoria come un “tappo”: “Ciò significa essere tecnicamente delle dilettanti -argomenta Serra-, e non poter mai vivere il calcio come professione, come vale negli altri Paesi. Senza considerare che la Nazionale è gestita a livello di Federazione, con sovrapposizioni di calendari continue visto che ognuno -tra LND e FIGC- va per conto suo”. Fatto sta che il progetto del “Settore” -che comprende, come si legge nel documento, “l’autonomo reperimento di risorse finanziarie e di contributi finalizzati al sostegno delle proprie attività”- non viene accettato e la trattativa tra le calciatrici e i vertici del calcio italiano inizia a precipitare intorno alla fine dell’estate di quest’anno. La riunione del neonato Comitato esecutivo invocata dalle protagoniste del calcio femminile è continuamente rimandata finché il 6 ottobre, il “Comitato ristretto per il calcio femminile” finalmente si ritrova.
A presiedere l’assise è Tavecchio, che ha dinanzi a sé Damiano Tommasi per l’AIC, Renzo Ulivieri per l’Associazione italiana allenatori calcio, Vito Tisci per il Settore giovanile e scolastico, Claudio Lotito per la Lega nazionale professionisti (LNP) Serie A, Andrea Abodi per la LNP Serie B, Tommaso Miele per la Lega PRO e Antonio Cosentino, il successore di Belolli, per la LND. Quella mattina si raggiungono intese importanti agli occhi della calciatrici “in agitazione” ma il primo verbale della riunione non le riporta. Le atlete si ribellano, chiedono che la parola sia mantenuta, ma a nulla servono le intimazioni. A questo punto, è metà ottobre, la categoria dichiara lo sciopero della Serie A, dove nella stagione 2015/2016 militano 12 squadre. “Prima di iniziare il campionato -spiega ad Ae Katia Serra- le ragazze volevano copia del verbale della riunione del ‘Comitato ristretto’ per avere nero su bianco le pattuizioni concordate. Il verbale che è stato sottoposto, però, recava grosse mancanze ed è finito per esser rispedito indietro. Per questo, il 15 ottobre (due giorni prima dell’inizio del campionato, ndr) è stato ufficialmente dichiarato lo sciopero”.
La Federazione non rinvia la giornata ma si decide a spedire il verbale completo con le richieste del mondo del calcio femminile accolte. La prima, come racconta Serra, riguarda il cosiddetto “fondo di garanzia” a tutela delle giocatrici in caso di fallimento delle società, da accantonare annualmente. “A partire dall’esercizio 2016 -ricorda Serra- saranno stanziati 50mila euro ogni anno da depositare in un fondo di garanzia a cui attingere in caso di fallimento o non iscrizione di società per saldare i debiti nei confronti delle tesserate”. 50mila euro a favore di 60 squadre tra Serie A e B, nemmeno la metà di quel il Comitato di presidenza della FIGC ha deliberato di stanziare -nel novembre dello scorso anno- per l’acquisto di 20mila copie del libro “Ti racconto… Il Calcio”, scritto nel 2012 da Carlo Tavecchio. Un’altra conquista inizialmente negata -oltre alla possibilità di concludere accordi pluriennali tra società e tesserate- era il sostegno della FIGC alla diffusione, promozione e pubblicizzazione della disciplina, tramite un finanziamento da mettere a bilancio. L’importo complessivo da destinare allo sviluppo del calcio femminile, è stata la decisione concordata in seno al Comitato ristretto, viene fissato a quota 500mila euro (di cui 50mila per il citato fondo di garanzia) che -ricorda Katia Serra- rappresenta lo 0,35% dell’intero budget federale. Ormai certe di questi riconoscimenti, messi nero su bianco, le ragazze della Serie A giocano la prima partita del campionato, sabato 17 ottobre. Sono ancora considerate dilettanti, però, visto che il passaggio al professionismo è stato rinviato una volta di più, anche per un grave ritardo normativo che risale al 1981 (Legge 91). Non è una questione di etichette (o di “lobby”, come sostiene Salerno): professionismo significa “diritto alla maternità, pensione, tutela del posto di lavoro”, spiega Serra, mentre calcola il tetto massimo di “rimborso delle spese” che una calciatrice di alto livello può percepire in Italia, “28.181 euro lordi annui”.
Ma per Carlo Tavecchio, “l’attenzione verso il calcio femminile non è mai stata così alta”, e la prova sarebbe costituita dalla nomina a fine ottobre di Rosella Sensi -già presidente dell’AS Roma, della Compagnia Italpetroli e assessore nella giunta di Gianni Alemanno al Comune di Roma- a “delegato al Dipartimento calcio femminile della LND nonché coordinatrice della Commissione per lo sviluppo del calcio femminile della FIGC”. A lei il compito di rilanciare una disciplina che, fatta eccezione la copertura Rai Sport di parte della Champions League, “se vuole andare in televisione deve pagare”, come afferma Katia Serra: una partita di alto livello, in media, “vale” solo 5mila euro. —
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