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Diritti / Opinioni

“Tutto cambierà” ma non lo cambieremo mai

Dopo le misure di chiusura rischiamo di tornare come eravamo. Schiacciati dall’iperconsumismo, addestrati a non progettare trasformazioni? La rubrica del prof. Paolo Pileri

Tratto da Altreconomia 227 — Giugno 2020
© Mauro Capasso

Il 5 maggio, primo giorno post-lockdown, accadeva questo: “Cagliari, la lunga fila di auto per entrare al fast food” (Unione Sarda); “Fase 2, la coda di macchine per McDonald’s a Bari è lunghissima” (la Repubblica); “In coda per un Big Mac: auto in fila per un’ora a Latina per andare da McDonald’s” (Il Fatto Quotidiano); “Catania, riaprono i McDonald’s: centinaia di auto in coda per un panino” (LiveUnict); “Coronavirus, Chieti: code di auto al McDonald’s per il panino da asporto…dei desideri” (Rete8); “L’Aquila: riapre il McDonald’s, lunga coda di auto per il McDrive” (AbruzzoWeb); “Riapre a Biella il McDonald’s, lunghe code di auto” (Newsbiella); “Fase 2: primo giorno d’asporto, tutti in coda in auto al McDonald’s di Masnago” (Varesenoi); “Coronavirus, al primo giorno utile McDonald’s preso d’assalto e via Brennero paralizzata” (il Dolomiti); “Villaricca, McDonald’s preso d’assalto: centinaia di auto in coda” (Tele Club Italia). “Voi non siete normali”, si sente dire in un video. No, ti sbagli, noi siamo straconvinti di essere stranormali. Cosa ti aspettavi dopo 60 giorni di arresti domiciliari senza nessun “influencer” politico che ci metteva almeno il dubbio che avevamo vissuto fino a oggi una normalità sballata?

4 chilometri: la coda più lunga per entrare al McDrive: una ferita che si riapre e brucia più di prima, figlia di un modello economico-sociale dal quale non ci siamo affatto distanziati nella quarantena

Ci hanno invece detto e ridetto di trattenere il fiato a colpi di incomprensibili liste di cose che potevamo o non potevamo fare. Provavano a dirci che era distanziamento sociale, ma è stato solo fisico. Che delusione perché noi abbiamo proprio bisogno di distanziarci da quel modello sociale. Invece, in piena crisi di astinenza, dalle Alpi alle isole, ci siamo implotonati per chilometri, chiusi ermeticamente nell’amata auto per ingoiare un fast-panino. Vietato prendersela con loro perché loro siamo tutti noi, educati per decenni a non prendere le distanze da quel modello. Semmai ci han detto di stare lontano da parchi, scuole, chiese, lavoro. Addestrati a battere le mani a un marketing commerciale che da tempo veste il paesaggio come gli pare e piace generando iper realtà che sfociano in un grottesco che non indigna più nessuno, e rende complici tutti. E poi ci chiediamo dove nascono disagi sociali e spaesamento, e scriviamo dotti articoli e libri elargendo ricette ex-post da improbabili podi. Quelle code sono il rito liberatorio di tutti noi che ci rimpossessiamo della nostra grammatica valoriale sociale. Quelli sono i congiunti che cercavamo e la mancanza di indignazione, vera e duratura aggiungo, ci rende ancor più parenti stretti tra noi. In verità, dobbiamo ringraziare quelli che erano là in coda per noi perché ci hanno aperto gli occhi e inchiodano tutti quelli che parlano di cambiamento, ma non cambiano né lo progettano. Quelle auto sono lì da decenni, icone dell’iperconsumismo che non abbiamo contrastato, ma accompagnato, soprattutto chi aveva e ha gli strumenti culturali e politici per reagire, ma è stato e sta zitto, dicendo “è così che van le cose”, “il cambiamento è difficile”, convinti sempre che è meglio non avere convinzioni da difendere ma compromessi da esibire.

Papa Francesco, in una piazza San Pietro vuota e in lacrime, è forse l’unico politico che ci ha indicato dove volgere il distanziamento sociale. “La tempesta che smaschera la nostra vulnerabilità e lascia scoperte quelle false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende, i nostri progetti, le nostre abitudini e priorità. Ci dimostra come abbiamo lasciato addormentato e abbandonato ciò che alimenta, sostiene e dà forza alla nostra vita e alla nostra comunità”.

Paolo Pileri è ordinario di Pianificazione territoriale e ambientale al Politecnico di Milano. Il suo ultimo libro è “100 parole per salvare il suolo” (Altreconomia, 2018)

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