Il declino degli Atenei italiani è l’effetto di una "spending review" mai votata dal Parlamento: oggi l’Italia investe nell’istruzione terziaria appena lo 0,9% del PIL, 6,9 miliardi (come nel 2006). I risultati? 27mila immatricolazioni in meno all’anno, e misure non efficaci per garantire il "diritto allo studio". Gianfranco Viesti (Università di Bari): "Alla politica interessano le sorti di una piccola parte del sistema universitario che è quella considerata d’eccellenza"
L’Università italiana perde ogni anno in media circa 27.000 immatricolazioni, quasi esclusivamente al Sud: Puglia, Calabria, Basilicata, Umbria, Molise, Abruzzo e Sicilia contano valori superiori al 20% e la Basilicata dal 2009/2010 al 2014/2015 ha perso il 36% di studenti.
Secondo il Rapporto Res “Università in declino. Un’indagine sugli atenei da Nord a Sud”, a cura di Gianfranco Viesti, “rispetto al momento di massima dimensione (databile, a seconda delle variabili considerate, fra il 2004 e il 2008) al 2014-15 gli immatricolati si riducono di oltre 66 mila unità, passando da circa 326mila a meno di 260 mila (-20%); i docenti da poco meno di 63 mila a meno di 52 mila (-17%); il personale tecnico amministrativo da 72 mila a 59 mila (-18%); i corsi di studio scendono da 5634 a 4628 (-18%). Il Fondo di finanziamento ordinario delle università (FFO) diminuisce, in termini reali, del 22,5%. Si tratta di una trasformazione opposta a quelle in corso in tutti Paesi avanzati (e ancor più negli emergenti) che continuano invece ad accrescere la propria formazione superiore: basti ricordare che mentre il finanziamento pubblico dell’Università in Italia si contraeva del 22%, in Germania cresceva del 23%; anche i Paesi mediterranei più colpiti dalla crisi hanno ridotto meno il proprio investimento sull’istruzione superiore”. Davide Cristofori, ricercatore AlmaLaurea e curatore del Rapporto AlmaLaurea 2016 sul profilo dei laureati italiani aggiunge che “l’Italia mostra un ritardo storico nei livelli di scolarizzazione, che ancora oggi riguarda sia la popolazione in età adulta che quella più giovane. Nel 2014, tra i 55-64enni, i laureati rappresentano nel nostro Paese il 12%, contro il 25% della media dei Paesi OCSE (l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, nda). Nella fascia di età 25-34 anni sono il 24%: siamo ultimi dopo la Turchia e la media OCSE è il 41%. Sul fronte del mercato del lavoro la situazione è altrettanto preoccupante. A pagare il prezzo maggiore della crisi sono stati, e lo sono tuttora, soprattutto i giovani. Tra i 15-29enni italiani, indipendentemente dal titolo di studio, il tasso di disoccupazione ha raggiunto nel 2015 il 30%: nelle prime fasi di ingresso nel mercato del lavoro, i giovani italiani incontrano maggiori difficoltà rispetto agli altri Paesi europei”.
In Italia lo 0,9% del prodotto interno lordo nazionale è investito nelle istituzioni dell’istruzione terziaria, a seguire solo il Lussemburgo. Questo uno dei dati emersi dall’“Education at a glance 2015”, l’annuale pubblicazione OCSE che analizza i sistemi di istruzione dei 34 Paesi membri e di altri stati partner, e presenta dati sulla struttura, i finanziamenti e i risultati dei sistemi d’istruzione dei vari Paesi presi in esame. Anche quest’anno, l’Italia si trova a chiudere la classifica in molti dei campi di indagine del rapporto, e la situazione di sottofinanziamento negli ambiti dell’istruzione, ricerca, sviluppo perdura dal 2008/2009. Il rapporto Eurostat 2014 presenta altri dati significativi, in linea con quelli dell’OCSE. L’Italia è all’ultimo posto in UE per percentuale di spesa pubblica destinata all’istruzione (7,9% nel 2014 a fronte del 10,2% medio Ue) e al penultimo posto (peggio solo la Grecia) per quella destinata alla cultura (1,4% a fronte del 2,1% medio Ue). La spesa italiana per l’educazione è al 4,1% a fronte del 4,9% medio Ue, penultima dopo la Romania (3%) insieme a Spagna, Bulgaria e Slovacchia. L’iter per l’assegnazione alle Università statali del Fondo di finanziamento ordinario (FFO) per il 2016 da 6,9 miliardi di euro e la nuova Programmazione triennale del sistema universitario, con alcune novità, sono stati ufficialmente comunicati e avviati. Il decreto con i criteri di ripartizione è stato inviato alla Conferenza dei Rettori (CRUI), al Consiglio Universitario Nazionale (CUN), al Consiglio Nazionale degli Studenti Universitari (CNSU) e all’Agenzia di valutazione del sistema universitario (ANVUR). Le novità: il 20% della quota premiale del Fondo per le Università dal 2017 sarà ripartito in base a indicatori scelti dagli atenei tra quelli forniti dal Miur; sulla programmazione triennale si semplificano le possibilità di reclutamento dei vincitori di programmi ERC (l’European Research Council è l’organismo dell’Unione europea che finanzia i ricercatori di eccellenza di qualsiasi età e nazionalità che intendono svolgere attività di ricerca di frontiera negli Stati membri dell’UE o nei paesi associati); agli atenei verrà concessa una maggiore flessibilità nella costruzione dei percorsi di laurea.
Alberto Baccini, Professore di Economia politica dell’Università di Siena e membro dell’Associazione Roars, spiega che “se è vero che saranno 6,9 i miliardi previsti dal Fondo di finanziamento ordinario, rispetto ai 6,450 del 2015, si potrebbe ritornare ai livelli di finanziamento del 2012 che tra l’altro sono quelli del 2005 e del 2006. In ogni caso i dati della riduzione della spesa pubblica per comparto, nell’istruzione, nella scuola e nell’Università, sono impressionanti e non ci sono segnali di ripresa, con le Università del Sud che sono in costante difficoltà e perdono studenti, docenti e risorse. Ci hanno raccontato per anni che l’Università italiana era pessima, era un luogo di nepotismo, dove le risorse distribuite erano troppe ed erano usate in modo inefficiente” continua il Professor Baccini. “Si parlava di bassa qualità della ricerca italiana, dei laureati che non servivano a nessuno e quindi si è cominciato a disinvestire: la spending review è cominciata proprio dall’Università. La cosa incredibile è che ciò avvenga senza che ci sia stata alcuna decisione del Parlamento su questi temi. I provvedimenti presi sono conseguenze di misure estemporanee, quasi amministrative, dei vari ministri o della tecnostruttura ministeriale, il che è decisamente preoccupante”. Diverse possono essere le ipotesi che spiegano questo atteggiamento "controcorrente". Secondo Gianfranco Viesti, che è professore di Economia applicata dell’Università di Bari, “l’istruzione da effetti positivi nel lungo termine mentre la politica italiana appare concentrata ad ottenere risultati nel breve termine. Inoltre, nell’ambito di questa riduzione con questi fondi, così distribuiti e così quantificati, si starebbe ridisegnando il sistema universitario (ma non esistono ancora documenti ufficiali) sostanzialmente organizzandolo su due livelli. Alla politica interessano le sorti di una piccola parte del sistema universitario che è quella considerata d’eccellenza, mentre ci si accontenta di condizioni modeste per la parte maggioritaria del sistema, che è quella sotto finanziata. Infine, sembra che l’Italia abbia deciso di adeguare il numero di laureati alla domanda invece di procedere ad una trasformazione dell’economia. Tutte queste ipotesi sono negative: ciò che dovrebbe importare davvero sono gli effetti nel lungo periodo, il sistema universitario nel suo complesso (e non solo gli atenei d’eccellenza) e poi servono lavoratori e imprenditori con alte qualifiche”.
“Lo storico ritardo formativo citato si riflette naturalmente anche sui livelli di istruzione della classe manageriale e dirigente italiana” dice Davide Cristofori di AlmaLaurea. “Nel 2014 la quota dei manager in possesso di un titolo universitario infatti è meno della metà rispetto alla media EU27: 25% contro 56%. A questo risultato si affianca il fatto che l’Italia ha una quota più elevata di manager con al più l’istruzione dell’obbligo (29%) che risulta quasi tre volte superiore a quella europea. È naturale che ciò, unito alle storiche caratteristiche del sistema imprenditoriale italiano composto in prevalenza da piccole imprese a gestione familiare, comporta inevitabili difficoltà nella valorizzazione del capitale umano più formato e più preparato”. La pubblicazione OECD 2016, Skills Outlook 2013 sostiene in maniera documentata, che la formazione superiore rappresenta il miglior investimento a lungo termine, perché garantisce un ritorno economico di gran lunga superiore a quanto investito, sia per il singolo individuo sia per lo Stato. Inoltre l’incompetenza ha un costo personale e sociale non trascurabile. L’Italia è un Paese dove chi nasce in un contesto socio-economico svantaggiato rischia di rimanere svantaggiato e tra coloro che hanno genitori con basso livello di istruzione circa uno su due soggetti ha a sua volta un basso livello di istruzione, contro una media OCSE di uno su otto. “E pensare che secondo alcuni ci sarebbero troppi laureati, che i laureati non servono: questo atteggiamento è ciò che fa ‘passare’ queste decisioni senza che venga aperto un dibattito” continua il Professor Baccini. “Servirebbero invece più risorse per il sistema, per i fondi di ricerca, per il fondo di funzionamento, per il Diritto allo studio. La nostra situazione è drammatica: l’Italia è l’unico Paese europeo in cui c’è la figura dello studente "idoneo non beneficiario”, ovvero colui che potrebbe aver diritto alla borsa di studio ma non ne beneficia perché non ci sono le risorse. Circa i tre quarti degli idonei non beneficiari è concentrato nelle regioni del Sud Italia”. Cristofori di AlmaLaurea continua così: “in Italia è assai carente una politica del Diritto allo studio e ci sono profonde differenze territoriali: tutte le regioni del Mezzogiorno, eccetto la Basilicata, rilevano una quota di beneficiari della borsa di studio sugli idonei inferiore alla media nazionale. In questo contesto, sono necessarie più risorse per l’Università e per il Diritto allo studio, per riequilibrare le forti eterogeneità territoriali e sociali nell’accesso all’istruzione superiore, per migliorare l’attrattività del sistema universitario in ottica internazionale, per dare un nuovo impulso alla capacità di sviluppo sociale, civile ed economico del nostro Paese. I dati infatti confermano che investire in istruzione conviene ancora. I laureati, infatti, godono di vantaggi occupazionali significativi rispetto ai diplomati durante l’arco della vita lavorativa: nel 2015, il tasso di occupazione della fascia d’età 20-64 è il 76% tra i laureati, contro il 64% di chi è in possesso di un diploma. Un significativo aumento dei livelli formativi, in particolare di quello universitario, deve essere pertanto un obiettivo primario per l’intero sistema Paese per la ricaduta sul sistema economico, sociale e culturale che questo comporta”.
Secondo il professor Viesti “il quadro è molto chiaro: la mobilità intergenerazionale in Italia è contenuta. Le persone tendono a rimanere nello stato sociale dei genitori, indipendentemente dal merito individuale. L’istruzione è un canale di mobilità. Bisognerebbe garantire l’accesso all’istruzione alle famiglie con reddito basso e ai ragazzi con genitori non laureati, come indicato nella nostra Carta Costituzionale. Il Diritto allo studio in Italia è a livelli contenuti rispetto agli altri Paesi europei comparabili, e non ci sono stati segnali di miglioramento, tranne per lo stanziamento di 50 milioni, da parte del Governo. Da otto anni, inoltre, c’è stata un’impennata delle tasse universitarie: sono aumentate molto anche rispetto agli altri Paesi (escluso il caso inglese che è a sé). Tutto ciò potrebbe aver portato le famiglie meno abbienti a rinunciare agli investimenti sull’istruzione”. Sul tema della mobilità per ragioni di studio e di lavoro dei laureati italiani AlmaLaurea ha presentato un approfondimento a fine aprile: “Lo studio mostra che la mobilità per ragioni di studio è molto bassa al Nord dove, su cento laureati, solo due cambiano ripartizione territoriale; cresce al Centro, dove la quota di chi migra per studiare è pari all’8%; sale ulteriormente per i laureati residenti al Sud: il 20% decide di fare la valigia e allontanarsi dalla famiglia d’origine -illustra Davide Cristofori-. La mobilità per lavoro mostra che, a cinque anni dal conseguimento del titolo: su cento laureati residenti al Nord, 7 se ne vanno per lavorare, prevalentemente all’estero; dal Centro, a spostarsi sono il 13% dei laureati, prevalentemente al Nord; il Sud perde oltre un quarto del suo capitale umano: il 26% lavora lontano dalla famiglia d’origine. A spostarsi maggiormente per motivi di studio e lavoro sono soprattutto coloro che provengono da contesti famigliari più favoriti dal punto di vista culturale ed economico e coloro che hanno performance di studio preuniversitarie migliori, verso aree geografiche che offrono maggiori opportunità di investimento per il proprio futuro e Atenei più ‘attrezzati’: dunque questo flusso migratorio rischia di impoverire sempre di più le regioni meridionali e di innescare con il trascorrere del tempo un inasprimento delle differenze tra aree e gruppi sociali, ingessando la struttura sociale del nostro Paese”.