Diritti / Reportage
Tra i redivivi nell’inferno di Obo, nella Repubblica Centrafricana
Non si contano gli ex rapiti dai gruppi armati ribelli in una delle zone più impenetrabili del mondo. Vivono sotto assedio, traumatizzati, in una nazione dilaniata da conflitti. Alcune famiglie hanno deciso di aiutare i sopravvissuti
Il giovane Joseph Lado percorre la strada di terra rossa che taglia in due la foresta in sella a una bici arrugginita. Si sospinge con una sola gamba perché visibilmente zoppo. Già a un primo impatto appare silenzioso e schivo in ogni gesto evitando con cura qualsiasi incrocio di sguardi prolungato. Sorride di rado e forzatamente. Mostra l’atteggiamento turbato di una persona oppressa da qualcosa di cui vorrebbe solo sbarazzarsi. Entra in casa sudato e affaticato, poi tira un sospiro di sollievo mentre si siede sul suo letto per iniziare a raccontare: “Questo mi è successo quando ero un miliziano. Un proiettile mi ha quasi spezzato una gamba. Avevo circa 12 anni quando sono stato rapito in Sud Sudan mentre camminavo fuori dal mio villaggio -afferma toccandosi il ginocchio-. Ho sofferto e fatto così tante cose orribili che non riesco nemmeno a ricordarle. Ci obbligavano: se non eseguivi, ti sparavano sul posto. Una notte, dopo sei anni, sono scappato e mi sono ritrovato qui. In questo villaggio senza vie d’uscita”.
Sono le prime ore dell’alba a Obo, una cittadina di 13mila abitanti nella prefettura dell’Haut-Mbomou, la più orientale della Repubblica Centrafricana, poco distante dai confini con Sud Sudan e Repubblica Democratica del Congo. Questo centro abitato situato in una delle zone più impenetrabili del mondo vive sotto l’assedio perenne di diversi gruppi ribelli in una nazione dilaniata da un conflitto civile che va avanti da otto anni.
Oggi il Centrafrica è instabile e ingovernabile. Più del 70% del suo territorio è sotto il controllo di 14 gruppi ribelli. Nonostante la firma di diversi accordi di pace, non è stato conseguito alcun risultato concreto se non la cristallizzazione di una crisi sempre più grave che ha causato vittime, fame e povertà estrema. Obo ne è un esempio chiaro. Sospesa in un limbo senza tempo, le persone vi sopravvivono. I pochi rifornimenti arrivano dalla capitale Bangui, ad oltre 1.200 chilometri di distanza, tramite un ponte aereo delle Nazioni Unite. Fuori dai cinque chilometri di capanne, protette da un manipolo di soldati dell’esercito regolare e da pochi caschi blu Onu, sono i ribelli a dettare legge. Se tenti di lasciare la città a piedi, muori. Se coltivando i campi ti spingi oltre i confini presidiati, muori o sparisci.
Oggi il Centrafrica è instabile: più del 70% del suo territorio è sotto il controllo di 14 gruppi ribelli. Nonostante accordi di pace, non è stato conseguito alcun risultato concreto
A bloccare ogni via d’uscita sono i miliziani dell’Unité pour la paix en Centrafrique (UPC), uno dei gruppi ribelli nati durante il conflitto civile che si sostiene gestendo traffici illeciti e le ricche risorse minerarie dell’area, specialmente oro e diamanti. Ma l’UPC non è l’unica minaccia. Già da molto prima dell’inizio del conflitto, Obo ha dovuto fare i conti con un nemico spietato: il Lord’s Resistance Army (LRA). Un gruppo ribelle, fondato in Uganda nel 1987, che ha fatto la sua comparsa in quest’area nel 2008 saccheggiando e massacrando i civili. Qui non c’è abitante che non abbia avuto a che fare direttamente o indirettamente con l’LRA. Chi ha perso un familiare o un amico, chi ha visto la sua casa bruciare ed è riuscito a salvarsi per un soffio e chi è stato preso riuscendo poi a fuggire miracolosamente. Sono quelli che da queste parti tutti chiamano les revenants, i redivivi, proprio come il giovane Joseph.
In un’abitazione non lontana dal mercato un altro dei sopravvissuti, Emmanuel Edwardo, 19 anni, è impegnato a cucinare mentre scambia qualche chiacchiera con i suoi fratelli più piccoli. Nonostante sia più grande, ha l’aria introversa e timida di un ragazzo smarrito e non si direbbe che sia stato un miliziano per più di dieci anni. “Camminavamo per mesi nella foresta trasportando carichi pesantissimi, senza cibo né acqua. Gli uomini del LRA puniscono con la frusta il minimo errore, la più piccola esitazione. Se cerchi di fuggire vieni ucciso o torturato”. Emmanuel è stato portato via dal suo villaggio nella R.D. Congo quando era solo un bambino e da allora non ha mai più rivisto i suoi cari. “Mi hanno addestrato per un anno nell’utilizzo delle armi. Mi hanno insegnato a uccidere e razziare i villaggi”.
Il Lord’s Resistance Army è uno dei gruppi più sanguinari e longevi che abbiano mai agito nell’Africa centrale. Fondato dal signore della guerra ugandese Joseph Kony, all’origine si è presentato come una formazione in opposizione al regime del Presidente ugandese Museveni. In seguito, trasformatosi in una setta di fanatici che uniscono fondamentalismo cristiano con il misticismo tradizionale africano, si è dedicato al banditismo e alla violenza finanziandosi con il bracconaggio, i traffici illegali e lo sfruttamento minerario in un’area transfrontaliera che comprende Repubblica Democratica del Congo, Repubblica Centrafricana, Sudan e Uganda.
Questi miliziani sono tristemente famosi per la brutalità, i massacri, le mutilazioni e i rapimenti. Si stima che l’LRA abbia ucciso migliaia di persone, provocato più di un milione di sfollati e rapito oltre 67mila giovani per trasformarli in feroci soldati e schiavi sessuali. Nonostante nel 2005 la Corte Penale Internazionale abbia spiccato un mandato di arresto per crimini contro l’umanità nei confronti di Kony e dei suoi vice, oggi il gruppo è ancora attivo. Infatti solo nel 2018 le ong presenti sul terreno hanno segnalato più di 85 attacchi con decine di vittime e più di 200 persone rapite. È da questo inferno che ragazzi come Joseph ed Emmanuel sono riusciti a fare ritorno. Ma se scrollarsi il passato di dosso è impossibile, reintegrarsi è comunque problematico. A Obo ci sono famiglie centrafricane che, nonostante tutto, hanno deciso di aiutare i sopravvissuti accogliendoli nella propria casa con il supporto dell’Ong statunitense Invisible Children.
Nana Monique, 47 anni, è una donna autorevole e rispettata in città per la sua esperienza. Più di due anni fa pensava di aver fatto un azzardo prendendo in affido Emmanuel, ma l’istinto materno e la certezza che la gentilezza fossero l’unico modo per alleviare i tormenti dei revenants l’hanno convinta. “Quando è arrivato qui aveva paura, si isolava e si arrabbiava per nulla. Ho dovuto lavorare molto prima che mi raccontasse della sua prigionia e iniziasse a voltare pagina. Oggi è un giovane obbediente che mi segue e mi supporta in tutte le faccende. Lo considero come uno dei miei figli”.
Una generosità per nulla scontata in un luogo dove si sopravvive a stento e dimostrata anche da Koumboyeki Michel, il 57enne che i vicini considerano ormai un eroe per aver avuto il coraggio di ospitare ed educare altri due ex-bambini soldato prima di Joseph. “Se hanno fatto del male non è colpa loro, li hanno obbligati a farlo. Sono stati presi con la forza. Ho dovuto accettarlo e perdonare per aiutarlo a rivivere. Il mio ragazzo era sempre scontroso e brusco all’inizio. Ma io sapevo che non era cattivo, era così solo a causa del dolore che aveva vissuto. Così gli ho insegnato a fare un po’ di tutto per prepararlo a quando tornerà a casa”, conclude orgoglioso.
Il programma di Invisible Children prevede il ricongiungimento con le famiglie di origine se rintracciate. Tra qualche mese Joseph ed Emmanuel partiranno per tornare in Sud Sudan e R.D. del Congo. “Abbiamo fatto delle foto ricordo di famiglia, così le porterà con lui. Joseph ha solo paura che non lo accettino, ma è pronto e ha il mio numero di telefono così potremo sentirci ogni tanto”, racconta Michel.
Anche Monique sorride serena pensando al futuro di Emmanuel ma non riesce a trattenere la malinconia: “Se dio vorrà, un giorno potrò vederlo di nuovo perché è giovane e può tornare da me. Se non sarò morta”.
Ma nonostante gli esempi dei singoli, ad Obo gli ex rapiti sono numerosi, un dato impossibile da tracciare, e le risorse messe in campo dalle poche ong presenti non possono supportare tutti. Basta fare due chiacchiere in una bettola della piazza principale per venire a sapere che due ragazze sopravvissute vivono emarginate a qualche centinaio di metri di distanza.
“La nostra amicizia è nata nel silenzio con i gesti. In prigionia non potevamo parlarci molto perché ci picchiavano quasi a morte. Siamo come gemelle ora” – Mado
Nella penombra degli alberi la 23enne Anne fuma una sigaretta e ha la schiena poggiata al muro mentre Madeleine, che ne ha 25 e preferisce essere chiamata “Mado”, è seduta su uno sgabello. Anne spiega che si sono conosciute mentre erano prigioniere dell’LRA e sono fuggite insieme: “Abbiamo sfruttato una distrazione delle guardie mentre stavamo prendendo l’acqua. Quando se ne sono accorti, ci hanno sparato, ma senza colpirci. Non sapevamo dove andare. Quando ricordo, sto male. Se non ubbidivamo, ci colpivano anche a colpi di machete. Abbiamo vissuto sofferenze terribili. Per una sola di noi c’erano tre o quattro uomini”. Mado invece è più riservata sul passato. Poi, spinta dall’amica aggiunge: “La nostra amicizia è nata nel silenzio, con i gesti. In prigionia non potevamo parlarci molto perché ci picchiavano quasi a morte se ci provavi. Siamo come gemelle ora. Lavoriamo e condividiamo tutto per rifarci una vita e dimenticare”.
Il rifugio delle due revenantes è una stanza in mattoni e paglia, due sedie e un letto dove dormire. Nient’altro. Oggi sopravvivono del poco aiuto di chi nella comunità non le ha escluse del tutto. Ma dopo la lunga prigionia Anne e Mado sono ancora una volta sole.
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