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I costi nascosti delle nuove “guerre remote” di Stati Uniti ed Europa

Un drone MQ-9 Reaper sulla linea di decollo ad Hurlburt Field, una base militare dell’United States Air Force in Florida. L’MQ-9 Reaper è un velivolo pilotato da remoto, armato, impegnato principalmente per la raccolta di informazioni - © US Air Force / Flickr

Le forze occidentali sperimentano in Somalia e in Sahel un tipo di conflitto che non prevede l’invio di nutriti contingenti armati e utilizza al suo posto nuclei speciali, droni, contractors. Tra le controindicazioni un aumento delle vittime civili

Tratto da Altreconomia 222 — Gennaio 2020

Nel settembre 2019 membri di al-Shabaab, un gruppo terrorista con base in Somalia, hanno attaccato un convoglio italiano nella capitale Mogadiscio e la base militare statunitense di Baledogle. Due attacchi tanto imprevisti quanto sottovalutati. La ragione di questa analisi insufficiente dipende in gran parte dalla natura delle recenti azioni in teatri di guerra stranieri: Paesi come Stati Uniti e Italia dispiegano un numero limitato di forze per affrontare gruppi ribelli o terroristi, con l’obiettivo di contenere i costi per le proprie truppe. Gli attacchi, tuttavia, non andrebbero letti come un incidente isolato ma come sintomo di un problema più ampio. E dovrebbero spingere il governo statunitense e i vari governi europei coinvolti in conflitti esteri a rivalutare la presunta assenza di rischio, non solo per le proprie truppe ma anche per la stabilità dei Paesi oggetto di intervento a distanza.

I due attacchi sono una perfetta illustrazione dei pericoli legati alla “guerra remota”, quella che si combatte quando l’intervento non avviene attraverso l’invio di grandi contingenti armati. La definizione è dell’Oxford Research Group (ORG), un istituto di ricerca con sede a Londra: secondo i ricercatori di ORG, guerra remota è “lo sforzo da parte di attori esterni di evitare il modello di contro-insorgenza (COIN) associato all’intervento statunitense in Afghanistan e Iraq e di focalizzarsi invece su altri modelli, quali l’invio di forze speciali, l’utilizzo di droni armati -l’arma simbolo di questo approccio-, il dispiegamento di contractors privati, l’assistenza attraverso il servizio di intelligence, l’invio di attrezzature e il training a milizie locali”.

Paesi come Stati Uniti e Italia dispiegano un numero limitato di forze per affrontare gruppi ribelli o terroristi, con l’obiettivo di limitare i costi per le proprie truppe

L’utilizzo di droni in particolare è legato all’interpretazione legale di “guerra globale al terrore”, applicata dagli Stati Uniti per giustificare uccisioni mirate in Pakistan, Siria, Yemen e Somalia. Non solo Usa, però: anche Israele, Turchia, Cina, Nigeria, Regno Unito, Francia e ora anche l’Italia fanno un uso globale di droni armati. Dan Gettinger del Center for the Study of the Drone a Washington riporta che la spesa per droni statunitense è salita del 21% nel 2018 rispetto al 2017. Phil Finnegan di Teal Group afferma che “la produzione globale di droni dovrebbe più che raddoppiare in un decennio, da 4,9 miliardi di dollari nel 2018 a 10,7 miliardi nel 2027, con un tasso di crescita annuo del nove per cento”. L’Unione europea intanto sta per lanciare il suo primo Fondo per la Difesa: se approvato dal Parlamento europeo, dovrebbe ammontare a circa 13 miliardi di euro in sette anni.

Ma nessuna guerra può essere chirurgica, priva di costi ed efficace allo stesso tempo: portare avanti guerre remote può essere percepito come vantaggioso, ma ha delle ricadute che aggravano il bilancio dell’intervento. Sia in Sahel sia in Somalia, dove è in corso un peggioramento della situazione di sicurezza, esacerbato da altre dinamiche interne, è vitale per gli attori esterni che hanno scelto di intervenire farlo con una strategia coerente e che tenga conto soprattutto di quelli che sono i bisogni della popolazione locale.

10,7 miliardi di dollari: il valore stimato del mercato dei droni nel 2027. Nel 2018 si è fermato a 4,9 miliardi

Le forze italiane attaccate a fine settembre del 2019 facevano parte di EUTM Somalia, una “missione militare dell’Unione europea che ha il compito di contribuire all’addestramento delle forze armate nazionali somale (Somali National Armed Forces, o SNA)”. La Somalia è una delle aree d’intervento delle politiche di sicurezza e difesa (CSDP) dell’Unione Europea. Paul Williams del Wilson Center osserva che “per oltre un decennio, una dozzina di Stati e organizzazioni multilaterali hanno investito tempo, sforzi, attrezzature e centinaia di milioni di dollari per costruire un’efficace esercito nazionale somalo. Finora hanno fallito”. Lo SNA conta “circa 29mila unità sul suo libro paga” ma molti sono soldati fantasma e quando le forze della missione dell’Unione africana in Somalia (AMISOM) si ritirano dai territori “la sicurezza tende a deteriorarsi in modo significativo ed è al-Shabaab a colmare il vuoto”. Gravi problemi affliggono anche l’impegno del comando africano degli Stati Uniti (AFRICOM) nel Paese. Ella Knight di Amnesty International ha documentato almeno sei casi in cui si ritiene che gli attacchi aerei statunitensi in Somalia abbiano provocato vittime civili e tutto questo in un’area geografica limitata.

Nessuna guerra può essere chirurgica, priva di costi ed efficace allo stesso tempo: portare avanti guerre remote ha ricadute che aggravano il bilancio delle operazioni

Nel caso dell’intervento europeo e americano in Somalia le questioni aperte sono due: prima di tutto il training delle milizie governative locali ha portato a soprusi verso la popolazione, accrescendo paradossalmente la reputazione di al-Shabaab. Inoltre, la guerra remota attraverso droni ha fatto un numero ancora imprecisato di vittime civili, non riconosciute dagli Stati Uniti, contribuendo alla percezione negativa che la popolazione civile ha di questi interventi armati. In ultima istanza, anche le truppe (in questo caso italiane e statunitensi) sul territorio sono vittima di rappresaglie da parte di gruppi armati.

Una donna spazza la polvere ed altri detriti da una strada dopo un attentato con una auto-bomba a Mogadiscio, capitale della Somalia, da parte del gruppo terrorista al-Shabaab – © AMISOM Photo / Tobin Jones

Anche il Sahel è un teatro di conflitti, dove sempre più Paesi, non solo occidentali, stanno intervenendo con le tattiche della guerra remota. Ma anche qui il costo dell’intervento non è da sottovalutare. Il 25 novembre scorso in Mali due elicotteri delle forze armate francesi si sono scontrati, uccidendo tredici soldati. La presenza delle truppe francesi rimanda a quanto accaduto nel dicembre 2013: allora, truppe francesi sotto l’egida dell’Operazione Serval erano intervenute in Mali per fermare l’avanzata di milizie armate verso la capitale Bamako; l’operazione, conclusa con successo, aveva dato il via a un altro intervento francese nella regione. A partire dal 2014 l’Operazione Barkhane intende fornire supporto nel lungo termine all’intera regione.

L’impegno internazionale sembra spesso esacerbare l’instabilità. L’abuso di Stato reale o percepito è un fattore alla base della decisione di unirsi a gruppi estremisti violenti

La missione di stabilizzazione integrata multidimensionale delle Nazioni Unite in Mali (MINUSMA) è stata istituita nel 2013 anche al fine di addestrare le forze regionali della Joint Force G5 Sahel. L’Unione europea ha istituto tre missioni di sicurezza e difesa in Mali e Niger, e sta procedendo a una maggiore regionalizzazione della propria presenza attraverso le Cellule Regionali di Consiglio e Coordinazione (RACC).
L’European Union Training Mission in Mali, in particolare, rientra nella definizione di assistenza a forze di sicurezza, in quanto fornisce addestramento militare a forze armate maliane. Tale contributo fa parte di uno sforzo più ampio per condurre operazioni a distanza nella regione: anche gli Stati Uniti hanno da poco costruito la base aerea 201 ad Agadez, un futuro hub per droni armati e altri velivoli. La presenza degli Stati Uniti nel Sahel è notevolmente aumentata negli ultimi anni, così come quella tedesca, britannica e italiana.

In Niger la presenza militare straniera ha avuto impatti negativi sulla libertà di parola e molti leader dell’opposizione hanno lamentato la mancanza di controllo parlamentare

L’impegno internazionale però sembra spesso esacerbare l’instabilità, come hanno affermato alcuni gruppi della società civile. International Alert riporta che tra giovani Fulani nelle regioni di Mopti (Mali), Sahel (Burkina Faso) e Tillabéri (Niger) “l’abuso di stato reale o percepito è il fattore numero uno alla base della decisione di unirsi a gruppi estremisti violenti. L’Unione europea sta attualmente addestrando truppe locali senza (però) esercitare pressioni sul governo di Bamako per introdurre riforme strutturali”. Proprio in Mali la questione è particolarmente problematica: secondo Abigail Watson dell’Oxford Research Group “forze armate e governo maliani sono accusati di favorire un gruppo etnico rispetto ad un altro”. Favorire un particolare gruppo all’interno di conflitti tra diverse etnie si è dimostrato essere estremamente dannoso per la sicurezza a lungo termine. Il governo nigerino ha accolto con favore la presenza di truppe statunitensi, purché contribuiscano allo sradicamento dell’attività terroristica nel Paese. La società civile in Niger però sembra diffidare di tale presenza. Un’inchiesta del Guardian nel 2018 segnalava che la presenza militare straniera ha avuto impatti negativi sulla libertà di parola e molti leader dell’opposizione hanno lamentato la mancanza di controllo parlamentare ogni volta che la presenza straniera è autorizzata. Gli Stati Uniti non hanno chiarito le loro intenzioni strategiche a lungo termine, mentre sia la Francia sia l’Ue lo hanno fatto: l’intenzione è quella di sostituire all’operazione Barkhane e alle missioni europee la G5 Sahel Joint Force. Non sembra tuttavia esserci un progetto strategico chiaro per il raggiungimento di tale obiettivo, il che porta inevitabilmente ad aspre critiche. Infine, come mostrano recenti ricerche, la “guerra dall’impronta leggera” ha comportato una serie di sfide che si riflettono su trasparenza e responsabilità pubblica. Come sottolineano Goldsmith e Waxman nel loro articolo “The Legal Legacy of Light- Footprint Warfare”, pubblicato da The Washington Quarterly nel 2016, “la guerra di impronta leggera non attira lo stesso livello di scrutinio congressuale e soprattutto pubblico rispetto a guerre più convenzionali”.

Tra le considerazioni che i Paesi europei e l’Unione stessa dovrebbero fare è necessario inserire un dialogo costante con la società civile del Paese in cui si sta intervenendo, ma soprattutto una chiara definizione della strategia e un’analisi del tipo di guerra che si vuole condurre, tenendo conto dei rischi che questo comporta.

* Delina Goxho è esperto in questioni di sicurezza internazionale per le Open Society Foundations 

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