Diritti / Attualità
Thailandia, vietato parlare di tortura nel Paese del turismo di massa
Da maggio 2014 governa una giunta militare. Con l’obiettivo di zittire gli attivisti per i diritti umani arresta, accusandolo di diffamazione, chiunque denunci le violenze dell’esercito. Abbiamo raccolto le loro testimonianze
Iniziarono con dei calci nello stomaco. Quando videro che nonostante le botte Ismael si rifiutava di confessare, decisero di provare con l’elettroshock. Una, due, cinque volte. Ma Ismael continuava a negare: “Mi spogliarono, mi lasciarono completamente nudo per ore e ore, in una stanza ghiacciata, e mi versarono sopra secchiate d’acqua fredda. Ma continuai a negare i crimini di cui mi accusavano: ero innocente”, racconta oggi.
Nel 2009, l’attivista thailandese Ismael Teh fu brutalmente torturato da un gruppo di militari. A quel tempo, era attivo nel movimento studentesco della sua università. Non aveva alcuna affiliazione politica, ma fu arrestato perché sospettato di essere un sostenitore di un movimento guerrigliero separatista. Fu imprigionato e torturato per diversi giorni.
Quando fu liberato, denunciò le violenze subite. A sette anni di distanza, nessuno dei suoi torturatori è stato punito, ma Ismael non ha perso le speranze e continua a lottare per ottenere giustizia: oggi lavora per la sezione di Human Rights Watch in Thailandia (www.hrw.org/asia/thailand), e si occupa di aiutare le vittime di tortura che, come lui, non hanno ottenuto alcun risarcimento.
“Mi spogliarono, mi lasciarono nudo per ore e ore, in una stanza ghiacciata, e mi versarono sopra secchiate d’acqua fredda. Ma ero innocente” (Ismael Teh)
Nel cosiddetto “Profondo Sud”, le province della Thailandia al confine con la Malesia, la maggioranza della popolazione è di etnia Malay e religione musulmana. Ha una propria lingua e una propria cultura, e rivendica l’indipendenza dal resto del Paese, dove gli abitanti sono in prevalenza buddhisti e di etnia Thai. In questa regione dal 2004 è in corso un conflitto tra l’esercito thailandese e i ribelli separatisti, organizzati in una ventina di gruppi armati, che ha provocato oltre 6.500 morti e 11mila feriti.
La situazione è ulteriormente deteriorata nel maggio del 2014, quando una giunta militare è salita al potere dopo un colpo di Stato -il 12esimo dal 1932-. Con il pretesto della lotta al terrorismo, la giunta ha proclamato lo stato d’emergenza e la legge marziale nelle province del Sud. Così facendo ha risposto alle violenze con ulteriori violenze. Chiunque sia sospettato di essere un separatista, o sia semplicemente critico nei confronti dei militari, rischia di essere incarcerato senza processo, accusato di crimini mai commessi, e sottoposto a torture fisiche e psicologiche.
Nel gennaio 2016, tre organizzazioni per i diritti umani che operano nel sud della Thailandia -Cross Cultural Foundation (CrCF), Duay Jai Group (DJ) e Patani Human Rights Network (HAP)- hanno pubblicato un dettagliato report sulle torture commesse dall’esercito dal 2004 al 2015. Nelle 54 testimonianze raccolte, le vittime descrivono le violenze subite: le minacce contro i propri familiari, l’uso dell’elettroshock, gli abusi sessuali, le ustioni, la privazione del sonno, il waterboarding (tipo di tortura che simula l’annegamento) e le finte esecuzioni.
L’esercito thailandese ha respinto ogni accusa e ha denunciato gli attivisti che hanno pubblicato il report per diffamazione e per aver violato l’articolo 14 della legge sui crimini informatici, che prevede fino a cinque anni di carcere per la diffusione online di materiale considerato falso e dannoso per la reputazione di qualcuno.
“Questo processo è un modo per zittire le voci degli attivisti per i diritti umani -dice Somchai Homlaor, presidente della Cross Cultural Foundation-. Vogliono mandare un segnale alle vittime e ai loro familiari, in modo tale che ci pensino due volte prima di denunciare gli abusi di fronte alle organizzazioni internazionali e a quelle locali”.
Parlare di tortura, in Thailandia, sta diventando sempre più rischioso. Il 28 settembre, le autorità thailandesi hanno vietato la presentazione del rapporto di Amnesty International su quelle commesse dall’esercito e dalla polizia. E hanno minacciato di arrestare i rappresentanti dell’organizzazione se non avessero annullato la conferenza stampa organizzata a Bangkok. “Le autorità thailandesi dovrebbero punire i torturatori, non gli attivisti che fanno il loro lavoro. Invece di minacciare di arrestarci e denunciarci, dovrebbero pensare a portare in tribunale chi ha commesso le torture. È gravissimo che denunciare violazioni dei diritti umani sia considerato un crimine, mentre le torture possano continuare in un clima di totale impunità”, ha dichiarato Minar Pimple di Amnesty International.
La paura di essere arrestati limita fortemente il lavoro delle organizzazioni per i diritti umani nel Paese: “Ci sono molti argomenti di cui non possiamo più parlare -dice Ekkarin Tuansiri, direttore del Patani Forum, un’organizzazione che si occupa di documentare casi di violazioni dei diritti umani e organizzare dibattiti per promuovere pace e democrazia in Thailandia e ha sede nella provincia meridionale di Pattani-. Cerchiamo di essere imparziali, ma a causa del nostro lavoro ci ritroviamo contro sia l’esercito sia i gruppi ribelli. Ormai esporsi e denunciare è diventato troppo pericoloso, tutti siamo a rischio”.
Nel maggio 2016, il Primo ministro Prayut Chan-ocha ha promesso che avrebbe introdotto una nuova legge contro la tortura e investigato i crimini commessi dall’esercito. La legge, tuttavia, non è ancora stata approvata e nessun militare è stato processato. Al contrario, son proprio i militari accusati di tortura ad aver messo sotto processo le vittime e i loro familiari.
Il 26 luglio scorso, la polizia ha arrestato una ragazza di 25 anni, Naritsarawan Kaewnopparat, con l’accusa di diffamazione: aveva postato sul proprio profilo Facebook la storia di suo zio Whichian Puaksom, torturato e ucciso dai militari nel 2011. Durante il servizio di leva, Whichian aveva disubbidito ad alcuni ordini. Per punirlo, i soldati lo denudarono, lo trascinarono su una superficie di cemento, e lo picchiarono. Poi misero del sale sulle ferite, lo legarono con degli stracci, gli cantarono le parole di un rito funebre, lo costrinsero a sedersi sul ghiaccio. Lo picchiarono con canne di bambù e lo calpestarono. Wichian morì a causa delle ferite cinque giorni dopo.
Naritsarawan è stata denunciata da un sergente maggiore, responsabile del centro militare dove fu torturato Wichian. È stata rilasciata su cauzione, ma rischia cinque anni di carcere nel caso venga condannata per diffamazione. “Nessuno in Thailandia può più parlare di tortura in pubblico. L’impunità, la certezza che i militari accusati non saranno puniti, provoca paura. La gente non ha più il coraggio di sporgere denuncia, o di chiedere aiuto, perché la polizia non lavora per le persone, lavora per difendere le autorità”, spiega Anchana Hemmina, fondatrice dell’organizzazione Duay Jai Group, che si occupa di aiutare vittime di tortura e i loro familiari.
Anchana capisce bene la paura delle vittime, perché lei stessa ha spesso subito minacce: “Un giorno, quattro macchine dell’esercito circondarono la mia casa. I militari bussarono alla mia porta, e mi dissero che dovevo smettere di parlare di certi argomenti, come le violenze e le torture, perché altrimenti mi avrebbero denunciato per diffamazione e mi avrebbero fatto passare dei guai. L’esercito dice che ci stiamo inventando tutto, vogliono nascondere i crimini commessi sotto il tappeto. Cercano in ogni modo di fermarci”, dice Anchana.
“L’impunità, la certezza che i militari accusati non saranno puniti, provoca paura. La gente non ha più il coraggio di sporgere denuncia, o di chiedere aiuto” (Anchana Hemmina)
Oltre ad occuparsi di documentare le violazioni e aiutare le vittime con supporto legale, Duay Jai Group si dedica anche al lavoro di assistenza psicologica e riabilitazione: “La tortura non è mai solo fisica: quando una persona è torturata, si rompe anche una parte del suo cuore. Per questo stiamo aprendo un centro di riabilitazione, con esperti in psichiatria, che passo dopo passo possono aiutare le vittime a superare il trauma subìto”, spiega la donna.
Il processo contro Anchana e i suoi colleghi è ancora in corso. Se il loro ricorso sarà respinto, rischiano di finire in prigione. Per le vittime e per i loro familiari, il lavoro di documentazione e denuncia degli attivisti costituisce l’unica speranza di giustizia: per questo, nonostante la posta in gioco sia alta, nessuno di loro ha alcuna intenzione di rinunciare.
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