Diritti / Approfondimento
Terrorismo e radicalizzazione: come contrastarli con la prevenzione
Una rete di esperti internazionali e i familiari di “combattenti” caduti in battaglia con il sedicente Stato Islamico portano avanti progetti di “de-radicalizzazione”. Fuori e dentro le carceri. L’Unione europea, lentamente, inizia a destinare risorse
Christianne Boudreau ha perso il figlio, morto in battaglia a 22 anni con il sedicente Stato Islamico nei pressi di Hrytan, vicino ad Aleppo, in Siria. Lei l’ha scoperto su Twitter, scorgendo sul profilo di un miliziano di Daesh la foto di Damian corredata da un elogio funebre in arabo. Il ragazzo mancava dalla casa di Calgary -in Canada- da più di un anno. “Avrei voluto essere capace di cogliere i sintomi della sua radicalizzazione -racconta Christianne-, ma non immaginavo cosa avesse in mente”.
“Si è convertito all’Islam, poi mi ha detto che sarebbe andato a studiare arabo in Egitto. Mesi dopo la sua partenza due agenti hanno fatto irruzione in casa avvisandomi che controllavano mio figlio da diverso tempo: avevano scoperto che non si trovava in Egitto, ma in Siria, dove si era arruolato con Daesh”. Dopo quasi un anno dall’arrivo dell’intelligence e diversi tentativi falliti di convincere suo figlio a tornare, Christianne viene a conoscenza della sua morte. “Prevenire la radicalizzazione e avere i mezzi per combatterla è fondamentale ed è l’unico modo per contenere la diffusione dell’estremismo islamico”, afferma.
Dal 2014, sono molti i giovani che hanno seguito le orme di Damian. Secondo il rapporto Foreign Fighters: An Updated Assessment of the Flow of Foreign Fighters into Syria and Iraq (dicembre 2015), a cura dei servizi di intelligence di The Soufan Group, nel 2015 sono partiti per la Siria e l’Iraq tra i 27mila e i 31mila foreign fighters (il doppio rispetto al 2014), provenienti da 86 Paesi, di cui oltre 5mila dall’Unione europea (1.700 solo dalla Francia). Contemporaneamente al crescere dei combattenti stranieri, si sono diffusi in Europa -specialmente in Francia, Germania, Regno Unito e Olanda- organizzazioni, think tank, reti di esperti e di cittadini che cercano di affrontare, prevenire e curare il problema dell’estremismo islamico. Si tratta di servizi e attività volti a reintegrare nella società gli individui radicalizzati e a far loro abbandonare l’ideologia jihadista. Tra questi c’è il German Institute on Radicalization and De-radicalization Studies (GIRDS, www.girds.org), una rete di esperti internazionali di counter-violent extremism (CVE) e de-radicalizzazione nata a Stoccarda nel 2012. Si tratta un istituto no profit che non riceve finanziamenti pubblici, né è affiliato a partiti politici.
“La maggior parte dei jihadisti occidentali non è guidata primariamente da motivi religiosi” (Daniel Köhler, direttore del German Institute on Radicalization and De-radicalization Studies)
“Ho iniziato a impegnarmi in attività di de-radicalizzazione creando nel 2015, insieme al GIRDS, Mothers for Life”, continua Christianne. “Si tratta di una rete internazionale di mamme che hanno vissuto l’esperienza della de-radicalizzazione in famiglia. Siamo in 11 (più un papà) e proveniamo da Canada, Stati Uniti, Germania, Italia, Francia, Olanda, Svezia, Norvegia, Danimarca e Belgio. In realtà, le mamme che collaborano con noi sono molte di più, è difficile stabilire il numero esatto”. Il progetto non riceve fondi pubblici ma è finanziato dai suoi stessi membri; si occupa di sensibilizzare ragazzi, insegnanti, famiglie, assistenti sociali sul tema della radicalizzazione, con incontri a scuola o nelle comunità locali. Un altro progetto di de-radicalizzazione al quale Christianne contribuisce è Extreme Dialogue (ED), iniziativa finanziata dal Public Safety Canada e dal Prevention of and Fight against Crime Programme dell’Unione europea, lanciata in Canada nel 2015 e nel Regno Unito nel 2016. ED ha dato origine al sito www.extremedialogue.org su cui si possono trovare filmati, testimonianze e materiale educativo relativo a storie di persone che hanno avuto a che fare con la radicalizzazione. Prosegue Christianne: “Il messaggio che vogliamo passare ai ragazzi è che non è mai troppo tardi per tirarsi indietro e abbandonare l’estremismo”. L’ostacolo maggiore è la disinformazione e “l’insufficiente coinvolgimento dei governi nelle attività di prevenzione”.
I Centri di de-radicalizzazione
“Esistono diversi percorsi di de-radicalizzazione”, spiega Daniel Köhler, esperto di estremismo, direttore del GIRDS e collega di Christianne. “Quando sono rivolti a un soggetto contro cui non è stato ancora aperta una procedura giudiziaria si parla di programmi di prevenzione o CVE. Quando invece sono destinati ai detenuti in prigione o subito dopo il rilascio in libertà, si tratta di attività che si concentrano più sulla riabilitazione e sul reintegro futuro nella società”. Prosegue Köhler, “I primi aiutano le famiglie e le comunità a identificare in tempo i processi di radicalizzazione e reclutamento, a fare rete e a intervenire prima che lo faccia la polizia. Dall’altro lato, consentono di costruire ponti tra le istituzioni, i soggetti interessati e le forze dell’ordine”.
Per esempio in Francia, dove i casi a rischio radicalizzazione sono circa 7.500 (dati del Comité interministériel pour la prévention de la délinquance, 2015), è stata inaugurata a settembre la prima struttura per la de-radicalizzazione di giovani estremisti islamici che non hanno commesso reati violenti. Il centro pubblico di “prévention, d’insertion et de citoyenneté” di Beaumont-en-Véron, nella regione tra Nantes e Parigi, può accogliere fino a 30 giovani, dai 18 ai 30 anni. Questi decidono di accedervi volontariamente, su suggerimento delle autorità giudiziarie competenti. Sono esclusi i cosiddetti “fiché S”, ovvero gli individui classificati come minaccia per la sicurezza dello Stato (anche se, inspiegabilmente, tra i primi ospiti del centro c’è anche un 23enne classificato “S”).
L’obiettivo dell’istituto, che non è un carcere ma un centro medico-sociale gestito dallo Stato, è riconciliare i suoi ”ospiti” con lo spirito democratico della République tramite corsi di cittadinanza e counseling psicologico. Per raggiungere lo scopo è previsto un soggiorno di dieci mesi al massimo, regole ferree e il contatto continuo con l’équipe di psicologi e insegnanti e i 30 dipendenti dello staff interno, come si legge nel programma del centro diffuso il 15 settembre dal ministero degli Interni. Quello di Beaumont è il pimo dei 12 centri che il governo aprirà in tutto il Paese nei prossimi due anni. Secondo quanto dichiarato a dicembre 2015 da Pierre N’Gahane, segretario generale del Comité interministériel pour la prévention de la délinquance (CIPD), i costi annui di funzionamento di ciascuna struttura oscillano tra 1 e 1,5 milioni di euro, da sommare ai fondi stanziati per la prevenzione e il sostegno alle famiglie (6 milioni di euro nel 2015).
La de-radicalizzazione nelle carceri
L’altro versante della de-radicalizzazione riguarda le carceri, luogo ad alto rischio. “Chi si occupa di de-radicalizzazione negli istituti penitenziari deve seguire uno specifico percorso di formazione. Generalmente la riabilitazione può comprendere quattro campi: religioso, sociale, educativo e psicologico”, precisa il direttore di GIRDS, Köhler, che da marzo coordina un programma pilota di formazione per gli ufficiali giudiziari in Minnesota, lo stato americano da cui partono più foreign fighter. “La strategia individuale viene scelta dall’esperto che gestisce il caso e va a colpire i fattori che hanno spinto l’individuo verso l’estremismo violento. Per alcuni è la religione, per altri sono problemi psicologici o sociali. Dall’esperienza maturata con GIRDS, la maggior parte dei jihadisti occidentali non è guidata primariamente da motivi religiosi”.
Il gruppo “Mothers for Life” è animato da 11 mamme (e un papà) di Paesi come Canada, USA, Germania, Italia, Francia, Olanda, Svezia, Norvegia, Danimarca e Belgio
Una delle questioni principali della de-radicalizzazione nelle carceri riguarda la collocazione dei detenuti jihadisti. Daan Weggemans, ricercatore presso l’International Centre for Counter-Terrorism dell’Aja (think tank indipendente specializzato in CVE), spiega: “Esistono due modelli di detenzione: uno prevede di separare i normali carcerati dagli estremisti, l’altro di mischiarli”. Non si sa ancora quale dei due sia più efficace: “isolare gli estremisti li porterebbe a fomentare la loro ideologia? Lasciarli con gli altri detenuti aumenterebbe il rischio di radicalizzazione? Le conseguenze di uno o dell’altro sistema non sono certe”, continua Weggemans. Per ora, il primo tipo è quello più diffuso. In Olanda, per esempio esistono due strutture, una a Rotterdam (De Schie) e una a Vught, nelle quali sono stati rinchiusi nel 2014 circa 80 ex foreign fighter. Ora il numero ha oltrepassato il centinaio.
Anche in Italia è stato adottato questo modello: i presunti terroristi (ad agosto erano 9) sono disposti in celle singole nel Braccio Alta Sicurezza 2 del carcere di Rossano Calabro -a meno di 100 chilometri da Cosenza-, senza poter avere contatti con gli altri detenuti. Gli istituti penitenziari sono il luogo dove è più facile che avvenga il reclutamento di nuove leve jihadiste: secondo il ministero della Giustizia, nel nostro Paese i detenuti interessati dal fenomeno della radicalizzazione in cella sono 345. Dato da leggere tenendo presente la politica delle espulsioni adottata dall’Italia: dal 2015 sono stati espatriati 123 presunti estremisti, 57 solo nel 2016. Tuttavia, il carcere è anche il contesto dove i processi di de-radicalizzazione possono dare i loro esiti migliori. È la storia di Jason Walters, un membro di Hofstad, il gruppo terroristico olandese di matrice islamista responsabile dell’omicidio del regista Theo van Gogh nel 2004. Walters, che stava pianificando l’uccisione di due parlamentari olandesi, Ayaan Hirsi Ali e Geert Wilders, venne arrestato e condannato nel 2006 a 15 anni di reclusione con l’accusa di terrorismo. Dopo tre anni in carcere e un intenso percorso di counseling, nel 2010 Walters ha pubblicato una lettera sul giornale De Volkskrant in cui ammetteva gli sbagli, condannava l’estremismo e si diceva volenteroso a reintegrarsi nella società. È stato rilasciato, in anticipo, il 5 novembre 2013.
Come nel caso di Walters, per dare esiti positivi i percorsi di de-radicalizzazione devono durare a lungo ed essere effettuati in modo professionale. “Risorse, istruzione adeguata, standard di qualità da rispettare. La maggior parte dei Paesi non impiega il tempo necessario per istituire percorsi specifici per combattere l’estremismo”, conclude Köhler. “Il fatto che in molti Stati una parte della popolazione sia convinta che la de-radicalizzazione sia uno spreco di soldi pubblici o porti alla criminalizzazione delle comunità è un freno”. La petizione lanciata il 6 aprile su change.org dall’associazione “Radicalment digne de Pontourny” per impedire l’apertura della struttura e i vari cortei cittadini che si sono tenuti in primavera ne sono un esempio.
“Non ci potrebbero essere affermazioni più sbagliate di queste”. Intanto, le spese europee destinate alle attività di counter-terrorism (CT) sono in crescita. Per quanto non sia possibile calcolare esattamente la spesa di ogni Paese e dell’Unione in questo campo, come precisa il rapporto Counter-terrorism funding in the EU budget pubblicato ad aprile dal Parlamento europeo, il budget del settore “Security and Citizenship” (che comprende le attività di CT) è passato da 2.146,73 milioni di euro nel 2015 a 4.052 milioni di euro nel 2016. Secondo le previsioni, è destinato ad aumentare.
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