Finanza / Opinioni
La storia italiana ci insegna che cosa fare quando il debito pubblico cresce
Alla fine dell’Ottocento le sorti politiche ed economiche dell’Italia dipendevano dalla grande finanza internazionale. La classe dirigente tentò di svincolarsi. Come? In tre mosse, coinvolgendo anche la banca centrale e i risparmi dei cittadini. Analogie utili nella situazione di oggi. L’analisi del prof. Alessandro Volpi
Quando nel marzo del 1861 nacque il Regno d’Italia, il governo Cavour decise di riconoscere i debiti degli Stati preunitari, mettendo in capo ai nuovi sudditi italiani un onere che era in quel momento di poco superiore al 40% del Pil. Tale scelta era resa per molti versi obbligata dal fatto che quei debiti pregressi erano stati contratti in larghissima parte dal Regno di Sardegna, quasi i due terzi del totale, ed erano nei confronti delle grandi banche francesi, i Rothschild in primis, molto vicine a Napoleone III. Non riconoscerli, dunque, avrebbe significato due cose: indebolire i rapporti con la Francia, che era stato il pressoché unico alleato di Cavour nel processo di unificazione italiana, e soprattutto non disporre più per il futuro di sottoscrittori del debito italiano che certamente sarebbe cresciuto vista l’intenzione maturata fin dall’origine del neonato Stato di spostare sul debito piuttosto che sull’aumento del carico fiscale il forte aumento della spesa pubblica. Così nel giro di poco più di un trentennio il rapporto fra debito e Pil arrivò al 110% e il collocamento dei titoli italiani fu garantito, nella sostanza, dalla presenza di grandi case bancarie. Ciò determinava una forte dipendenza delle sorti italiane, politiche ed economiche, dalla grande finanza internazionale, da cui la classe dirigente dalla crisi di fine secolo cercò di svincolarsi utilizzando tre strade distinte.
La prima fu quella di realizzare avanzi primari, di avere cioè entrate superiori alle uscite al netto degli interessi. La seconda consistette nell’utilizzo della circolazione della neonata Banca d’Italia per comprare titoli del debito italiano. La terza, molto efficace, fu quella di fare affidamento sui risparmi degli italiani, raccolti attraverso le casse di risparmio postali e le casse di risparmio; una parte rilevantissima di tali risparmi provenivano dagli emigrati le cui rimesse in alcuni momenti erano pari ad un ottavo del Pil italiano. In questo modo l’Italia si liberò in buona misura dalla dipendenza dai mercati esteri e ridusse la spesa per gli interessi dal 30 a meno del 10% del totale della spesa statale. Nello stesso periodo il rapporto debito Pil scese dal 120 a meno dell’80%, dato del 1914.
Perché ricordare questa storia ridotta all’osso? Forse perché presenta alcune analogie con la situazione attuale cui si accennava in apertura. Oggi il debito pubblico italiano, soprattutto quello emesso dal 2014 in poi, è nelle mani della Banca d’Italia che lo compra con le risorse della Bce, insieme e ormai in misura assai superiore alle altre banche italiane. Ciò contribuisce certo a ridurre la dipendenza italiana dai mercati e quindi riduce i margini della speculazione, certamente devastante se non esistesse un simile “ombrello” e se l’intero debito dipendesse da mercati e banche.
Negli ultimi mesi il Tesoro italiano sta provando ad emettere titoli destinati ad attrarre il risparmio degli italiani in direzione dei Btp; lo ha fatto con il Btp Italia, lo sta per fare con il Btp Futura. Si tratta di titoli che vogliono mettere a disposizione del Paese i 1.400 miliardi di euro che gli italiani tengono nei conti correnti e nei depositi vincolati. Ancora una volta, forse, con la Banca d’Italia -questa volta legata direttamente alla Bce- e con la mobilitazione del risparmio possiamo tentare una ripresa che, però, a differenza degli anni giolittiani ha bisogno dell’Europa per non finire nella prima guerra mondiale.
Certo non dovrebbero accadere episodi non del tutto chiari. A marzo, nel pieno della bufera dell’epidemia, si è consumata la fuga dall’Italia di 107 miliardi di euro, in buona misura in direzione della Germania. Si tratta di un deflusso difficile da ricostruire, come hanno messo in luce alcuni osservatori, ma certamente preoccupante. Una porzione importante delle risorse ottenute dalle banche italiane attraverso il Piano di sostegno pandemico varato dalla Bce è stata indirizzata in parte al riacquisto di titoli italiani venduti da operatori esteri, in parte all’acquisto di titoli di Stato tedeschi, ritenuti un impiego sicuro per stabilizzare i bilanci delle stesse banche. Nello stesso periodo, alcune banche italiane hanno utilizzato una linea attivata dalla Bce con la Federal Reserve americana per approvvigionarsi di dollari. Data l’entità complessiva della “fuga”, più di 100 miliardi di euro, come si è accennato, è davvero auspicabile che si tratti di una condizione una tantum e soprattutto che sia accompagnata da un rapido rientro in Italia di quelle risorse, vista l’ulteriore stabilizzazione del quadro finanziario resa possibile dagli ultimi interventi della Bce. Se così non fosse, l’azione della stessa Bce sarebbe molto indebolita e si confermerebbe la necessità, sempre più marcata, di trasformarla a tutti gli effetti in una banca centrale evitando l’intermediazione bancaria, già oggi largamente ridimensionata. La storia italiana ci insegna che, spesso, quando il debito pubblico cresce, servono una banca centrale e i risparmi degli italiani.
Università di Pisa
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