Diritti / Opinioni
Sport e show business: dove sono gli atleti?
Le istituzioni sportive sono parte della geopolitica globale: dagli Europei alle Olimpiadi, le scelte hanno risposto a criteri opportunistici. Una rotta da invertire. La rubrica di Lorenzo Guadagnucci
In vista del 6 agosto 2021, il 76esimo anniversario della bomba atomica sganciata su Hiroshima, il sindaco della città e i sopravvissuti all’esplosione (gli hibakusha) hanno chiesto agli atleti riuniti in Giappone per i Giochi olimpici di osservare il tradizionale minuto di silenzio in memoria delle vittime. Il Comitato olimpico internazionale (Cio) ha opposto però il suo fermo no, replicando che i Giochi “sono di per sé una manifestazione di pace globale” e che durante la cerimonia di chiusura sarebbero state ricordate le vittime di tutte le tragedie della storia.
L’amarezza per tale elusiva risposta in Giappone è stata forte, ma almeno è emersa in tutta la sua evidenza l’ambigua posizione delle istituzioni sportive nella società contemporanea. Sono istituzioni che coltivano l’ambizione di tenere insieme esigenze diverse, se non opposte: da un lato reclamano la propria totale apoliticità, dall’altro sono parte non solo del business ma anche della geopolitica globale. Il Cio, negando il minuto di silenzio, ha forse evitato di mettere in imbarazzo la delegazione degli Stati Uniti (ma l’ex presidente Obama non aveva visitato Hiroshima nel 2016?), ma intanto ha fatto un torto allo spirito sportivo, che dovrebbe svilupparsi lungo canoni più umani e più spontanei di un comunicato-editto che toglie ogni voce in capitolo agli atleti.
Le Olimpiadi sono state spesso un palcoscenico di atti politici, e non potrebbe essere altrimenti: difficile dimenticare i reciproci boicottaggi fra Stati Uniti e Urss e i rispettivi satelliti, o il pugno chiuso -per dire degli atleti che prendono proprie iniziative- di Tommie Smith e John Carlos alle Olimpiadi di Città del Messico nel 1968.
Quando le istituzioni sportive rivendicano la propria apoliticità in realtà compiono un atto politico tutt’altro che neutrale, specie se consideriamo la progressiva mercificazione della pratica sportiva, assoggettata da tempo alla logica dello show business. Il calcio non sfugge alla regola. I prossimi campionati mondiali, per dire, pur di accontentare i ricchi emiri del Qatar si svolgeranno nel 2022 a dicembre anziché in estate e sfidando le già forti critiche per le condizioni di lavoro degli operai (per lo più immigrati senza diritti) nella costruzione di avveniristici stadi usa-e-getta.
Agli scorsi campionati europei ha creato scompiglio il gesto compiuto da alcuni giocatori di mettere un ginocchio a terra prima del calcio d’inizio, in segno di protesta contro le violenze subite dalle persone di pelle nera. Proprio il team italiano ha brillato per goffaggine e vistosa politicizzazione dei pretesi “apolitici”. Alcuni “azzurri” (cinque su 11), all’inizio di una partita, si sono inginocchiati, suscitando reazioni stizzite, finché la Federazione giuoco calcio (Figc) ha emesso un surreale comunicato, impartendo l’ordine ai calciatori di comportarsi come la squadra avversaria (per “solidarietà”), ma precisando di “non condividere” la campagna antirazzista. E i nostri giocatori si sono fatti notare per l’obbediente silenzio.
1.300 milioni di euro spesi fra 2011 e 2020 nella gestione del Paris Saint-Germain dall’emiro qatariota Nasser Al-Khelaïfi, presidente della società sportiva e del fondo sovrano Qatar Investment Authority che la controlla.
Lo sport è -potenzialmente- uno straordinario veicolo di fratellanza e di superamento delle barriere: lo è per la sua etica di competizione non distruttiva, per la tendenza a vivere l’appartenenza nazionale senza spirito bellicoso e con flessibilità, al punto che alle Olimpiadi sono ammessi atleti “senza bandiera” perché rifugiati politici o apolidi. Le istituzioni sportive sembrano però agire anche su un altro piano: più politico, più affaristico, più opportunistico. Toccherebbe agli atleti dire qualcosa di… sportivo e invertire finalmente la rotta.
Lorenzo Guadagnucci è giornalista del “Quotidiano Nazionale”. Per Altreconomia ha scritto, tra gli altri, i libri “Noi della Diaz” e “Parole sporche”.
© riproduzione riservata