Diritti / Opinioni
Siamo in guerra, non ditelo a nessuno
Perché l’Italia è impegnata in Iraq e Afghanistan? Il Parlamento non si pone da tempo domande come queste. È necessario tornare a farlo. La rubrica di Lorenzo Guadagnucci
Per qualche anno, nel pieno della “guerra al terrorismo” lanciata dall’amministrazione Bush dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, attorno alle missioni militari all’estero si è giocata in Italia una lotta politica incandescente. Il loro finanziamento, anno dopo anno, ha diviso il Parlamento e il Paese. L’articolo 11 della Costituzione -quello che “ripudia la guerra”- era al centro della contesa, invocato dai “pacifisti” per contrastare la partecipazione italiana alle missioni, citato dai “realisti” per sostenerne un’interpretazione aperta alle “missioni internazionali”. Poi è calato il silenzio. Delle guerre in corso nel mondo si parla pochissimo, della partecipazione italiana ancora meno e gli stanziamenti per i nostri soldati all’estero sono diventati una routine. La guerra, appena camuffata, è entrata nella vita quotidiana delle istituzioni.
5.700 i militari italiani impegnati attualmente in 37 missioni all’estero. Circa 1.700 sono dislocati nell’area Afghanistan-Iraq-Kuwait
Poi succede che un atto di guerra riporti la questione sotto i riflettori. Cinque “incursori” delle nostre forze speciali impegnate nel Kurdistan iracheno sono rimasti feriti a novembre nell’esplosione di un ordigno nei pressi di Kirkuk. Titoli su giornali e telegiornali, interviste a generali e ministri, attestazioni di solidarietà per “i nostri ragazzi”. Ma anche un gigantesco non detto e un massiccio ricorso a un lessico da “neolingua” orwelliana. Tutte le fonti ufficiali hanno parlato di “attività di addestramento” dei “peshmerga” curdi e il significato della locuzione “forze speciali” è rimasto nel limbo delle allusioni. Leggendo le cronache del fatto e aggirando il fragile schermo lessicale, si capisce però che i nostri soldati “addestratori” sono in realtà impegnati nei combattimenti, a fianco dei gruppi armati nostri alleati, contro le residue formazioni islamiste dell’Isis. Stiamo combattendo una guerra pressoché segreta: non se ne parla, il Parlamento evita di fare domande imbarazzanti, gli interventi ufficiali seguono le regole della dissimulazione. Quando Alex Zanotelli, missionario ed ex direttore di Nigrizia, ha osato rompere il tabù -“Non parliamo di martiri di Nassiriya, eravamo lì per difendere il petrolio con le armi; e che ci stanno a fare i nostri militari oggi in Iraq e Afghanistan? Aiutiamo i curdi a fare la guerra all’Isis? Ma se in Siria abbiamo abbandonato i curdi”- la risposta della politica è stata una reprimenda generalizzata, senza la minima apertura di un dibattito vero. Nel discorso pubblico mancano anche le parole per discutere di guerra. La parola stessa è bandita. Si deve parlare di “missioni”, meglio se “internazionali” invece che “militari”. Non si “combatte” ma si “consiglia” e si “addestra”. Le “missioni” sono intraprese a difesa della “democrazia” contro il “terrorismo”, ma entrambi i termini sono stereotipati, intesi in un’accezione di comodo legata alle necessità della dissimulazione. All’epoca del nazismo, un famoso filologo studiò la comunicazione di regime e capì che l’asservimento della lingua era il veicolo per la compressione del pensiero e la manipolazione delle masse. Cambiati i tempi, è una lezione che dobbiamo tenere a mente e quindi pretendere di discutere di tutto e con le parole giuste. I soldati italiani a Kirkuk sono stati feriti in un’operazione di guerra decisa ma poco discussa dal Parlamento. La domanda di Zanotelli è quella giusta: perché siamo in Iraq e Afghanistan con spedizioni militari anziché civili? Una democrazia che non discute di questioni cruciali e si priva delle parole per farlo, è una democrazia menomata, una pseudo democrazia.
Lorenzo Guadagnucci è giornalista del “Quotidiano Nazionale”. Per Altreconomia ha scritto, tra gli altri, i libri “Noi della Diaz” e “Parole sporche”
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