Diritti / Opinioni
Lo sguardo di Caravaggio e le parole di Leogrande
Nelle ferite e nei corpi dei sommersi si trova la chiave per resuscitare il corpo della politica. Mettendo al centro il racconto del reale. La rubrica di Tomaso Montanari
Alessandro Leogrande, morto nel 2017 a quarant’anni, ci manca da morire. Ci manca la sua presenza. Ma i suoi libri parlano con forza. Nel libro “La frontiera” (2015) ci racconta, tra l’altro, la storia di Hamid, che nel maggio 2011 era su una barca affondata di fronte alla coste libiche. Gheddafi era vicino alla fine e iniziava a spedire in Italia quei corpi che prima aveva fermato, e torturato. Così una nave viene riempita: riempita così tanto che, dopo venti minuti, si inclina da un lato, inizia a imbarcare acqua. Affonda. Le donne e i bambini sono chiusi in una cabina: a chiave. Non hanno scampo. Alla fine si contano 650 morti. Scrive Leogrande: “Prendi 650 corpi. Prendi 650 corpi di uomini, donne, bambini, anziani. Prendili uno per uno e disponili in fila. Quanti metri è lunga la fila? Fin dove arriva? Non pensare ai loro volti, non pensare a quello che hanno patito. Pensa solo a quanti sono. Entrano tutti in un appartamento di medie dimensioni? Entrano in un cinema? Sono sufficienti i gradoni della curva di uno stadio? C’è qualcosa di incommensurabile in ogni naufragio”.
L’ultimo capitolo del libro si intitola “Tutta la violenza del mondo”. E parla di Caravaggio. Parla del Martirio di San Matteo, il grande quadro che Caravaggio dispone sulla parete destra, per chi guarda, della Cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi, a Roma. In primo piano c’è un delitto, un fattaccio di cronaca nera in una chiesa di Roma. Un sicario, nudo, sta per sgozzare un vecchio prete, proprio sull’altare. Una folla assiste all’evento. Sono i benpensanti riuniti per la messa: ben vestiti eleganti, sicuri. Si ritraggono orripilati, ma non fanno nulla: non intervengono. Sono la zona grigia. In quella folla, nota Alessandro, tutti sappiamo che Caravaggio ha rappresentato se stesso. “Caravaggio non fugge -scrive- guarda la vittima perché non può fare altro che stare dalla sua parte e vedere come va a finire ciò che si sta per compiere. Ha già intuito tutto, ma non interviene. Sa di non poter intervenire, di non poter fermare quella spada. La sua commiserazione è ancora più dolorosa, perché totalmente impotente”.
Ebbene, concludeva Alessandro quattro anni fa: “Ora mi chiedo se lo sguardo di Caravaggio non sia anche il nostro sguardo nei confronti dei naufragi, dei viaggi dei migranti e soprattutto dalla violenza politica e economica che li genera. Nella migliore delle ipotesi, ovviamente. Quando cioè quello sguardo non è inquinato dall’apatia, dall’indifferenza, dallo stesso fastidio per l’oscenità della morte. Quando quello sguardo non è già, fin dal principio, connivente con la lama dell’aguzzino”. Leogrande guarda tutta la violenza del mondo attraverso gli occhi di Caravaggio: perché è Caravaggio -coi suoi corpi vessati, torturati, mutilati, decapitati: violati senza speranza di resurrezione né di umana giustizia- a dire la verità sul rapporto tra i corpi e il potere. Nelle ferite, nelle piaghe dei corpi sommersi: è lì la via per resuscitare il corpo della politica. I 650 corpi senza vita che Alessandro Leogrande ci invita a immaginare, a figurarci nella mente quasi come un in un esercizio spirituale di Ignazio di Loyola: quei corpi sono la chiave. “L’arte -ha scritto Michel Foucault- deve stabilire con la realtà un rapporto che non è più di ornamento, di imitazione, ma di messa a nudo, di smascheramento, di ripulitura, di scavo, di riduzione violenta alla dimensione elementare dell’esistenza”. L’arte di Caravaggio, la scrittura di Alessandro Leogrande.
Tomaso Montanari è professore ordinario presso l’Università per stranieri di Siena. Ha vinto il Premio Giorgio Bassani di Italia Nostra.
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