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Diritti / Intervista

Giovanni Teneggi. Il “settimo tempo” del mutualismo

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Presente sui territori e in continuo dialogo con chi li abita, oltre l’idea di soluzionismo tecnico: così la cooperazione può rinnovarsi e aiutare a superare le crisi moderne. Intervista al direttore generale di Confcooperative Reggio Emilia

Tratto da Altreconomia 227 — Giugno 2020

L’evoluzione del concetto di mutualità della cooperazione si è sempre rapportata a fenomeni grandi, e di crisi, dell’umanità.
Oggi entriamo a mio avviso in un ‘settimo tempo’, perché questa crisi sanitaria che ci è venuta incontro ha messo in primo piano il tema dei sistemi territoriali, l’esigenza di un riallestimento sociale, istituzionale ed economico dei territori”, sostiene Giovanni Teneggi. Direttore generale di Confcooperative Reggio Emilia, Teneggi è anche responsabile del progetto “Cooperative di comunità” di Confcooperative.

Come si è arrivati a questo “settimo tempo”? 
GT A fine Ottocento la prima cooperazione riguarda il consumo: nasce per mantenere il potere d’acquisto nei territori più marginali e nei quartieri metropolitani. Era legata alla cooperazione di lavoro e a quella agricola, che toccava temi come la riforma fondiaria e il bracciantato. Con il procedere della storia contemporanea, si passa al tema della casa con la grande storia della cooperazione di abitazione, e quindi il welfare con la crescita dello Stato e il ruolo della cooperazione sociale. Da lì c’è stata a mio avviso l’attesa di un sesto tempo, che è rimasto incompiuto: si è atteso negli ultimi 20 anni e avrebbe dovuto mettere al centro i temi della coesione territoriale, della fiducia, della comunità, che affrontasse un fenomeno potente di virtualizzazione degli scambi, di volatilità dell’elemento fisico dei luoghi. E se è vero che dentro il movimento cooperativo c’è una narrazione che coglie questi fenomeni, lo è anche che strutturalmente la cooperazione dagli anni Cinquanta in poi ha un po’ perso il radicamento nei territori, diventando uno strumento industriale: l’emergere di Stato e mercato ha amplificato anche per la cooperazione una specializzazione industriale esonerandola da una mutualità di luogo, più stretta, com’era fino a metà Novecento.

Quali sono i nuovi valori che l’impresa cooperativa deve saper cogliere o cui deve saper rispondere?
GT Da un lato quelli fondamentali, legati alla formazione della personalità e della persona, dall’altro quelli dell’essere comunitario. Per me sono la parola, la conversazione, e i suoi luoghi. Un alfabeto che abbiamo perso nel tempo. Dai cooperatori comunitari ho imparato che la parola è il primo bene comune da salvaguardare. Non a caso, forse, la prima cooperativa di comunità è quella nata a Monticchiello (SI) intorno al “teatro povero”, all’inizio degli anni Ottanta. Oggi la parola è inflazionata e trattata superficialmente. Rappresenta un flusso di uso, nemmeno più narrativo. Considero invece la conversazione una infrastruttura civile e materiale e per questo è importante saperla innescare, mantenere e riconoscere, è un elemento dinamico che dà senso e valore. Con la parola, servono luoghi della conversazione: è fondamentale “allestire” l’essenza istituzionale dei territori e per istituzioni intendo non solo quelle pubbliche ma la capacità di ogni gesto di essere opera e un riferimento stabile per le persone. La cooperazione deve capire che non basta offrire prestazioni, bisogna essere istituzione di presenza, ascolto e innovazione costante.

“La cooperazione è la capacità, l’abilità necessaria all’interno della comunità, per tenerla viva. Comunità e cooperazione sono perciò interdipendenti, l’una non può prescindere dall’altra”

Questo è un tema che riguarda l’ambito dei servizi sociali ma anche quello dei servizi pubblici: oggi stiamo traducendo l’idea di efficienza in termini di prestazioni fruibile, e non di presenza soggettiva, di conversazione fruibile. Mille prestazioni sanitarie date su un territorio in modo individuale e da punti distanti e riconoscibili non valgono 700 date da un’istituzione “presente” a quella popolazione. Si è assecondato questo principi: non chiediamo più che sia presente un municipio, o un ospedale, o un ufficio postale, presidi, ma che sia garantiti l’accesso ai servizi. Sono però convinto che non serva, non sia sufficiente, un “soluzionismo tecnico”, che non derivi dall’ascolto reciproco, da una conversazione appunto. Non è possibile che al territorio spetti solo di manifestare domande e bisogni, perché altrove si portano risposte che possono arrivare anche portare da un drone: due comunicazioni unilaterali non fanno il dialogo, la conservazione.

Quando si parla di cooperazione e di comunità, come declinano questi due termini uno accanto all’altro? Che peso assumono l’una e l’altra?
GT La comunità è il soggetto. La cooperazione è l’azione. Il processo necessario, l’abilità: se dico cooperazione di comunità, non ne definisco come forma necessaria quella della cooperativa, e credo che il movimento cooperativo dovrebbe affrontare il tema in termini di evoluzione, sganciandosi da un modello organizzativo. La comunità è il soggetto ed è l’hardware identitario e allo stesso modo il soggetto e l’obiettivo cui si tende: anche le comunità sono un processo, come la democrazia, presente finché è agito. E sempre in evoluzione. La cooperazione è la capacità, l’abilità necessaria all’interno della comunità, per tenerla viva. Comunità e cooperazione sono perciò interdipendenti, l’una non può prescindere dall’altra. I due termini sono associati per mostrare una condizione originaria, della comunità e della cooperazione, che non può prescindere da una comunità obiettivo e soggetto, che non è necessariamente fisica o geografica, può essere anche di scopo.

“È fallito un sistema prestazionale e oggi riscopriamo nel metodo della cooperazione di comunità un principio di efficienza nella rarefazione: ci siamo abituati a ritenere efficiente solo ciò che sta in ambienti densi”

Ha senso parlare, perciò, anche di comunità di lettori, quella ad esempio dei soci di Altreconomia. 
GT Sì. Bisognerebbe poter dire cooperativa di cooperatori. Se è vero che per comunità e per cooperativa di comunità dobbiamo intendere anche un gruppo elettivo di persone, che si accompagnano, siglando un patto di condivisione, la cooperazione porta con sé un elemento di adesione continuo e costante, capace di cogliere l’evoluzione dei bisogni e anche delle paure che i componenti portano e manifestano. Una comunità di agricoltori, o una comunità di lettori, può nascere per aspirazioni e interessi. Veniamo da una storia recente dove l’adesione a una cooperativa è stata l’adesione meccanica, e ripetuta, di un nuovo socio a ciò che una realtà già esistente proponeva: la crescita garantiva la salvaguardia della funzione cooperativa per com’era, era la ripetizione meccanica dell’adesione fatta da altri prima. Ma le cooperativa oggi devono essere lo spazio in cui un nuovo socio può interpretare un proprio bisogno, o esprimere un’aspirazione, all’interno del patto cooperativo. Il punto distintivo dovrebbero essere le persone: questa anima si è atrofizzata, dentro lo strumento cooperativo. Durante il “settimo tempo”, sarà vincente l’atteggiamento di quella cooperativa che intenderà l’adesione di un nuovo socio come la possibilità di una nuova scoperta del proprio fare, in cui la cooperazione aderisce al progetto del singolo. È una comunità di persone che sono guidate da una missione elettiva. Comunità e cooperative dovrebbero essere organismi intrinsecamente instabili, perché fatti di persone, e invece hanno rischiato di restare inermi.

Il “teatro povero” di Monticchiello, in provincia di Siena. Un esempio di cooperativa di comunità Teatro povero di Monticchiello – © Emiliano Migliorucci

In che modo il mutualismo potrà rappresentare una risposta di fronte all’emergenza vissuta negli ultimi mesi? 
GT Attendo che siano riattribuite alla comunità parole, conversazione, luoghi, istituzioni perché mi sembra che siano fondamenta di una riapertura di tutto ciò che abbiamo oltre questo periodo di crisi. Sarà necessario porsi in conversazione con la persona, nell’area dei bisogni e della pertinenza rispetto agli aspetti più profondi e decisivi del gestire il tema della paura. Di fronte a questa crisi, l’elemento di maggior incertezza che abbiamo, rispetto anche agli esiti fuori controllo ai quali può portare, è l’incapacità di gestite la paura più profonda, quella di fallire, morire, morire da soli, rimanere soli. Sono temi con cui non facevamo più i conti e anche la cooperazione era dell’idea che ci potessimo ormai occupare di rispondere a domande correnti, seguire la forza dei flussi di creazione di bisogni e domande. È necessario un sistema che sappia trattare le paure, in un ciclo più lungo e non per obiettivi di remunerazione a breve, mettendo mano a elementi mutualistici.
Per certi versi le comunità che per la loro intraprendenza negli ultimi anni hanno colto la forza di questi meccanismi hanno generato strumenti per affrontare il momento. È fallito un sistema prestazionale e oggi riscopriamo nel metodo della cooperazione di comunità un principio di efficienza nella rarefazione: ci siamo abituati a ritenere efficiente solo ciò che sta in ambienti densi, invece questa situazione ci obbliga a riscoprire un principio di efficienza in un ambiente diverso, slegato dalla massificazione incrementale delle risorse, dalla ridondanza di accessibilità alle opportunità.

Che invito farebbe a un (nuovo) cooperatore?
GT Oggi è il tempo di allestire dei punti intermedi, che siano mutualità ed economia, di saper riconoscere quanto è giusto investire per garantire la vita di una banca di credito cooperativa, di un giornale cooperativo, anche di ristoranti e botteghe del proprio territorio, che perderemo se non assumeranno una forma cooperativa. Nel caso di una rivista come Altreconomia, la domanda che dobbiamo porci non riguarda solo l’importanza che può assumere per le sue prestazioni, ma quanto ci rassicura la sua presenza, perché la sua stessa esistenza è valore. È questo il tempo in cui dovremmo avere la capacità di capitalizzare quei soggetti e quei progetti che vogliamo garantirci per il futuro. Un investimento che non risponda solo all’esigenza di garantire competitività ai singoli elementi, ma che rappresenta un hardware, una struttura base che permetta agli abitanti e ai cittadini di dirsi tali.

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