Economia / Opinioni
Si torna al ricettario avvelenato dell’austerity, come se le crisi non ci avessero insegnato nulla
Le tranche già liquidate del Piano nazionale di ripresa e resilienza e i cantieri aperti hanno prodotto e produrranno, in base ai numeri del Def, un effetto irrisorio sulla ripresa italiana, almeno fino al 2026. Occorre valutare bene le scelte economiche fatte finora. L’analisi di Alessandro Volpi
Le stime contenute nel Documento di economia e finanza (Def) sull’andamento dell’economia italiana sono tristemente chiare: nei prossimi tre anni il Prodotto interno lordo (Pil) -indicatore peraltro del tutto inadeguato per misurare le reali condizioni di un Paese- stagnerà intorno all’1%. Secondo il Fondo monetario internazionale si tratta persino di una stima fin troppo benevola dal momento che secondo le sue previsioni il nostro Paese non dovrebbe superare lo 0,7% nel prossimo biennio.
Dunque l’Italia non avrà alcuna “ripresa”: anzi, un incremento dell’1%, in presenza di un’inflazione ben più alta, nasconde due aspetti. Il fatto che lo stesso aumento dipende in gran parte dalla crescita dei prezzi -ed è dunque un incremento fittizio- e che la lievitazione del costo della vita è assai più alta dell’aumento dei redditi, con conseguenze sociali pesanti. Bisogna aggiungere poi che con le nuove condizioni dei tassi di interesse nel 2023 la stima più attendibile per quel che riguarda la spesa per gli interessi da pagare per il collocamento del debito italiano si attesta attorno ai 100 miliardi di euro, in pratica la terza voce di spesa corrente del bilancio dello Stato.
Alla luce di ciò occorrerebbe valutare le scelte economiche fatte finora. I bonus non hanno inciso sul Pil; al netto delle tante fantasiose ricostruzioni, sappiamo ormai che ogni euro speso dallo Stato per i bonus ha partorito, complessivamente, meno di un euro, senza contare l’impatto ancora tutto da stimare in pieno dei costi della cessione dei crediti cartolarizzati. Le tranche già liquidate del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) e i cantieri aperti hanno prodotto e produrranno, proprio in base ai numeri del Def, un effetto irrisorio sulla ripresa italiana, almeno fino al 2026. Non si rilevano infatti, nei documenti di bilancio partoriti dai ministeri, stime significative per il prossimo biennio determinate dagli interventi legati al Pnrr, molti dei quali avrebbero bisogno, per essere messi poi a regime, di una forte crescita della spesa corrente, a cominciare da quella del personale e dei servizi.
Nel frattempo, si sente parlare nuovamente di manovre finanziarie che utilizzeranno soltanto gli “spazi di deficit” lasciati liberi dalle differenze con gli impegni europei. In altre parole, per l’Europa dobbiamo portare il rapporto deficit/Pil al 4,5 mentre probabilmente scenderà al 4,35; dunque monetizziamo la differenza che si traduce in circa tre miliardi di euro. Dal 2024, poi, la soglia di tolleranza, finita la deroga europea legata alla pandemia da Covid-19, tornerà al 3% ed è evidente che, in simili condizioni, ogni margine di manovra e ogni “monetizzazione” degli spazi di deficit verranno meno. Non avrà alcun effetto, nell’ottica del ripristino delle “regole fiscali” europee, la contrazione del rapporto debito-Pil che dovrebbe scendere secondo le previsioni ministeriali dal 144,2 del 2022 al 141 del 2025 perché si tratterà di una riduzione dettata dall’inflazione e comunque non rilevante rispetto al più stringente vincolo del già ricordato rapporto deficit-Pil.
Senza spazi di deficit e con tassi alle stelle determinati dalla politica della Banca centrale europea, dunque, la costruzione di qualsiasi intervento di spesa pubblica risulterà estremamente pesante. Appare chiaro che ragionando così si torna al pre-pandemia, all’Europa tedesca e alla perniciosissima austerity, come se le crisi non ci avessero insegnato nulla. Le destre, dopo aver vinto, promettendo lo Stato dei sogni sono tornate a seguire, pedissequamente, un ricettario avvelenato, da cui la paura suscitata dalla pandemia sembrava averci allontanato. Così le disuguaglianze esploderanno ulteriormente.
Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento
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