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Diritti / Opinioni

Scuola come laboratorio?

© Ricardo Mörtl - Unsplash

Il sistema di istruzione e formazione sembra dover andare verso una delega all’outdoor piuttosto che a un incontro reale con le comunità locali. Il liberismo considera obsoleti i “ferri vecchi”del mestiere-docente. Ma è una trappola ideologica che si accompagna alla dissoluzione degli spazi pubblici, scrive Renata Puleo

Da circa un paio di anni si fanno insistenti, anche a seguito dello shock provocato dalla pandemia, raccomandazioni volte a indurre cambiamenti della didattica tradizionale come se in ogni ordine e tipo di scuola ne conoscessimo una che fa da canone. L’inversione di gerarchia fra pedagogia e strumenti-tecniche d’insegnamento, il processo di naturalizzazione della cornice meritocratica, fanno sì che sì che appaiano obsoleti i ferri del mestiere-docente, poco efficaci per realizzare i valori del liberismo attuale. Soprattutto, si ripete, la scuola come luogo fisico e relazionale, deve aprirsi al territorio, ampliare i suoi orizzonti, farsi genericamente includente, mostrare una sorta di capacità metabolica di assorbimento della varietà locale, dei contesti informali.

Le linee del presunto rinnovamento, attraverso la stipula dei Patti territoriali, trovano sostegno e rinforzo nel Piano nazionale di ripresa e resilienza che raccoglie tutto il portato di progressiva dissoluzione degli spazi pubblici iniziato negli anni Ottanta. Il sistema di istruzione e formazione sembra dover andare verso una delega all’outdoor, piuttosto che a un incontro con le comunità locali che veda, come condizione, la sua funzione pubblica rispetto all’interesse privato.

Nella scuola dei più piccoli e in quella dell’obbligo, il lavoro pedagogico e didattico ha avuto punte di eccellenza proprio grazie a esperienze che oggi vengono presentate come rinnovamento necessario. Questo gioco -tutto ideologico- inventa l’acqua calda, senza alcuna capacità e volontà di recupero, in termini di ricerca diacronica, storica, e sincronica nelle molte nicchie di ottimo lavoro didattico in atto.

Un esempio eclatante è quella che oggi viene definita, con scarsa conoscenza semantica e di epistemologia pedagogico-didattica, esperienza laboratoriale. Nella confusione e nella forzatura ideologica pan-riformista, il laboratorio è concepito come attività pratica, l’agire direttamente sulle cose, sugli ambienti, con il minimo indispensabile di teorie, conoscenza, leadership dell’adulto. Non solo il bambino sa, come un piccolo esploratore cosa cercare, cosa trasformare in sapere utile, ma anche il territorio sa. Soprattutto sa chi opera nella nebulosa del Terzo settore, cresciuto in era Covid-19 sulle spalle del vecchio volontariato cattolico e di sinistra, misto di senso di servizio, proselitismo, interesse privato. Sparisce l’insegnante, preso nella fusione degli uguali: il dentro e il fuori, l’adultità e l’infanzia stanno sullo stesso piano (G.J.J. Biesta, “Riscoprire l’insegnamento”. Raffaelo Cortina, Milano 2022). Sparisce l’atto dell’insegnare come responsabilità, ogni conoscenza è sorgiva, nasce dal fare, il labor, in una pantomima del learning by doing di Dewey.

La didattica laboratoriale, ricondotta a una definizione corretta, teoricamente fondata, consiste nello scambio interno al gruppo dei soggetti che abitano un’aula-classe, significa tensione tra i differenti saperi e continuo temperare autorevolezza e fiducia, implica l’incontro responsabile con l’altro e con i propri limiti. Dunque, più che contenuti e azioni specifiche rivolti a un prodotto, essa riguarda i presupposti al labor, l’attenzione alle potenzialità, il tempo disteso per la cura. Tutto ciò che quel gruppo specifico, irreplicabile, unico, può imparare, con insuccessi e regressioni, soprattutto grazie a quel che appare a-normale, non ordinario, eretico (C. Skliar, “؟Y si el  otro no estuviera ahí? Notas para una pedagogia (improbable) de la diferencia”, Muños y Davila, Buenos Aires 2011). Oggi, nel proliferare degli acronimi, ogni alunno è bisognoso di interventi speciali, soprattutto specialistici, medicalizzati, nella torsione paradossale verso un conformismo dei bisogni. L’insegnare viene oscurato dalla fretta valutativo-meritocratica: ogni incontro va messo a misura di utilità, di efficacia-efficienza, aspetti che mal si compongono con il differire.

Le scuole dei piccoli centri, ha ragione chi ne parla (vedi Altreconomia 249), sono state nel secolo scorso un luogo per esperienze autenticamente laboratoriali: legami stretti con la comunità nel cui territorio di vita e di lavoro la scuola insisteva, facilità di interazione con le specificità, pluriclassi in cui valorizzare il tutorato, lo scambio fra abilità e conoscenze nel mescolarsi delle età dei bambini. La loro scomparsa sicuramente ha agito da concausa nello spopolamento dei piccoli centri, che erano una caratteristica degli insediamenti italiani. Il gonfiarsi drammatico di alcune città ha prodotto sradicamento, nuove povertà, bruttezza, violenza. Eppure, anche le nostre peggiori periferie urbane hanno avuto e hanno ottime scuole, insegnanti e comunità territoriali che giocano la miseria, il degrado come risorse da cui partire. Come disse un ex alunno di Milani, “la scuola è sempre meglio della merda”. Non solo, la sociologia più avvertita fonda le potenzialità del capitale sociale nell’incontro fortuito e in quello di vicinato, basati non solo e non tanto sulla pattuizione istituzionale o contrattuale, ma sulla fiducia. Tale capitale è inappropriabile mentre la tendenza imprenditoriale cerca in ogni modo di inserirlo nella catena del profitto (R. Cartocci, “Mappe del tesoro. Atlante del Capitale Sociale in Italia”, Il Mulino, Bologna 2007 e C. Laval, F. Vergne, “Èducation democratique.La révolution à venir”, La Découverte éditions , Parigi 2021).

Pertanto, le raccomandazioni al rinnovamento dovrebbero essere accolte come stimoli rivolti a chi determina le politiche scolastiche perché promuova il recupero della tradizione pedagogica della scuola pubblica. Parliamo di formazione dei docenti che catturi quella cultura, parliamo di diffusione capillare della scuola dell’infanzia e dei nidi come luoghi dedicati a una fase importantissima dell’età evolutiva e non mero servizio a domanda, del tempo pieno come possibilità di incrocio di sguardi e di parole che sappiano davvero includere il differire dei soggetti e dei luoghi, parliamo della messa a bando della valutazione standardizzata le cui statistiche non prevedono il differire, della dignità stipendiale per il personale, del rilancio della buona burocrazia amministrativa e dell’insegnare come compito di altissima responsabilità. Conoscere una tradizione non obbliga a rimanere fermi, l’esperienza pregressa, anche l’analisi dei sui limiti ed errori, consente creatività e innovazione.

Se un sistema nel tentativo di rinnovarsi cambia configurazione, struttura e organizzazione delle parti, nell’abbandono della sua radice tradizionale, muta le sue funzioni, diventa altro, e nel considerarlo, lo troveremo irriconoscibile.

Renata Puleo vive a Roma. Nel 1971 ha iniziato a insegnare nella scuola elementare, oggi primaria, a Torino, nel quartiere Mirafiori. Direttrice didattica nel 1981, su disposto del decreto legislativo 59 del 1998, ha svolto funzioni di dirigenza scolastica fino al 2011, a Roma. Ha scritto e scrive su tematiche educative e di politica scolastica. Tra i suoi testi recenti, “Valutare senza INVALSI si può. Muri a secco e colate di cemento”, Anicia Ed Roma, 2019, (con) Caterina Angelotti “Dita per leggere. Tatto, vista, udito: il corpo nell’apprendimento della letto-scrittura”, Anicia Ed Roma, 2021, (con) Anna Angelucci “Cos’è un libro? Sull’oblio della lettura nell’era digitale”, Giovanni Fioriti Ed Roma, 2021.

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