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La “rotta alpina” dei migranti dopo il biennio della paura non è scomparsa

Una parte di frontiera tra Claviere e Monginevro. La "rotta alpina" è un tratto di 12 chilometri di strada che separa Claviere, in Italia, da Briancon in Francia. Viene percorsa da donne, uomini e minori, anche bambini, che cercano di raggiungere la Francia © Michele Lapini

Il rifugio di Briançon che ha accolto 12mila persone in tre anni è a rischio chiusura. Così lascia un vuoto

Tratto da Altreconomia 231 — Novembre 2020

Due Stati, Francia e Italia, salvati da una rete di cento, centocinquanta persone che hanno impedito che le nostre Alpi Occidentali fossero un enorme cimitero di affogati nella neve e nell’apatia. Se questa lugubre storia insegna qualcosa, questo ha a che fare con la forza delle minoranze che sanno organizzarsi. Sul lato italiano, in Val di Susa, a cavare uomini, donne e bambini dalla neve, in alcuni casi portandoli a casa per mesi con i piedi congelati e marci, è quello che viene considerato l’anti Stato per eccellenza: pezzi del movimento No Tav. Poi qualche prete, qualche piccola associazione di volontariato torinese, fine. Su quello francese, a Briançon, tutto ruota intorno a un piccolo rifugio di cui parleremo dopo.

Accade al confine tra Italia e Francia, lungo le Alpi Occidentali che vanno da Ventimiglia alla Val di Susa: la “rotta alpina”, 12mila passaggi in tre anni solo nei 12 chilometri che collegano Claviere a Briançon; rotta rimasta nascosta, sotto traccia, coperta da un velo di pudore che ha impedito l’emergere di una nobiltà narrativa. L’arco di montagne che va dalla Liguria alle Alpi Cozie ha visto passare non meno di 50mila esseri umani, esodo fatto in scarpe da tennis e scarponi, tratti di strada lunghi anche 50 chilometri percorsi a piedi, di notte, sotto le stelle che da anni osservano i testimoni della fine della misericordia e lo sfacelo del diritto. Perché questo tratto di montagne e di foreste sia escluso dallo sguardo ed anzi, peggio, abbia recuperato dignità di menzione di massa in occasione di sgangherate battaglie di confine durante il governo nato dall’accordo tra Movimento 5 Stelle e Lega, non è un enigma.

La Francia che restituisce i migranti all’Italia entrando nel nostro territorio: chi ricorda? Parole pescate nel cestino della storia, i posti di blocco al confine che vengono buttati lì e rimangono lì nel gelo per mesi e anni, “fortezze Bastiani” a uso e consumo della propaganda: di tutte quelle storie è probabile che solo vaghi ricordi sopravvivano, digeriti dalla società eccitata così ben descritta da Cristpher Turcke in un libro di alcuni anni fa, “La società eccitata”, pubblicato in Italia da Bollati Boringhieri.

La “rotta alpina” ha questa sgradevolissima caratteristica: è la nostra rotta. I “migranti”, termine che dovrebbe essere abolito perché ormai gonfio come un’otre di pregiudizi duri come l’acciaio, non partono da un Paese “primitivo”, “povero”, “troppo piccolo”, da una “dittatura” e via cantando nel vasto mondo dei cliché che rassicurano e creano sensi di colpa: partono da un Paese occidentale, l’Italia, e arrivano in un Paese occidentale, la Francia. Partono e arrivano dentro due democrazie liberali avanzate in cui il benessere, sebbene a macchia di leopardo, è un monolite fondato sul consumo e sullo spreco di una minoranza sempre più ricca.

La nostra Calais, un po’ più piccola, sparpagliata. Una coperta di vergogna è stata allungata sulla “rotta alpina”, su due Stati che da anni hanno comportamenti schizofrenici: sostengono rifugi sui due lati del confine ma al contempo fanno controlli serrati su treni, auto, nei boschi, di notte affinché i “migranti” restino immobili. Ma, attenzione, lasciarsi catturare dal “confine” come momento e luogo supremo della storia è spostare lo sguardo altrove, rassicurarsi che sì in fondo sono cose che accadono lassù, lontano dalle nostre vite quotidiane.

Il rifugio di Briançon ha accolto 12mila persone che attraversano la “rotta alpina”. Sul lato italiano tra chi soccorre i migranti ci sono gli attivisti del movimento No Tav © Michele Lapini

Lassù c’è un flusso di persone, sono tanti, alcuni muoiono. Capita, è la vita e la morte: non è così. Il confine della “rotta alpina” altro non è che una sineddoche, una parte per il tutto degli infiniti confini che si sono alzati lungo il “bel Paese”. Anni di delirio collettivo italiano, di follia e formazione di massa all’intolleranza hanno eretto infiniti muri della quotidianità. I bar di periferia, quelli che nel tempo sono diventati presidi sociali che convogliano solitudini senza sbocco, sono devastati delle trasmissioni del mattino, del pomeriggio e della sera che fanno formazione all’intolleranza: in questi luoghi nel biennio della paura non si parlava più di calcio, si parlava solo di “invasioni”.

I campi di frutta dove i braccianti raccolgono la nostra frutta, le metropolitane, i luoghi pubblici, le fabbriche nel biennio della paura sono diventate trincee dove si affondava nel fango dell’odio, del nemico, motori pompati a pieni giri in cui classi subalterne gramsciane hanno trovato un nuovo avversario; imboccate con il pappone avvelenato dei social e dei media di massa, hanno potuto scatenarsi contro i poveri. Il confine si è spostato dalle montagne alle città, alle periferie ma non solo.

La rotta, la nostra “rotta alpina”, come un torrente si è gonfiata anche di uomini, donne e bambini impauriti da un contesto sociale divenuto pericoloso: passavano di notte, di giorno, nei boschi, cercavano la strada alla luce di un accendino tra lupi e temperature polari, braccati dalla Gendarmeria, dalle milizie private d’oltralpe che venivano a fare dei “controlli”, il brivido della ricerca del povero, del disgraziato, della donna incinta.

Scene terribili da non raccontare per non alimentare il senso di colpa di chi già ce l’ha e soprattutto per non fomentare quella sadica soddisfazione molto ben alimentata durante il tempo della paura. Poi, un giorno d’estate, il biennio finisce, improvvisamente. La rotta, senza una ragione precisa, apparentemente, diminuisce e riprende il suo corso normale. I passaggi continuano ma qualcosa è successo nei vari confini del Paese che non sono più alimentati dal carburante della paura e dell’intolleranza. Arriva il Covid-19, altre paure monopolizzano l’attenzione e le montagne si svuotano di turisti e disgraziati che passano a piedi dove i primi scivolano felici.

Ma il regresso è sempre un miele che attira, ovunque. Nel giugno del 2020 la piccola cittadina di Briançon, appena al di là del confine della Val di Susa -località splendida e nota da secoli per la sua accoglienza- decide di sostituire il vecchio col nuovo e quindi passare dal sindaco socialista Gerard Fromm al repubblicano conservatore Arnaud Murgia. Il primo lascia il rinnovo della concessione alle due associazioni che gestiscono il rifugio al successore. Il cuore della “rotta alpina” -nata nel 2016-17 grazie a un ex colonnello dei paracadutisti francesi alla cui porta, in una notte di neve e gelo, bussarono quattro africani che si erano persi- cambia sangue e il rifugio che ha accolto 12mila esseri umani diventa un problema.

Arriva anche il Covid-19, tre casi e chiusura temporanea: il problema peggiora. Murgia, il nuovo sindaco, dapprima intima lo sfratto, poi vista la reazione internazionale, l’attenzione della stampa non solo francese, una raccolta firme che raggiunge quota 40mila che mette al vertice volti noti della cultura e dello sport, abbozza. Forse cede. Anzi no, tiene duro. Lui non vieterà l’aiuto dei “bénévoles” agli esseri umani che attraversano le Alpi a piedi, dice.

Affermazione spericolata che implicitamente ammette molte cose. Affermazione che, peraltro, sorvola sul fatto che aiutare un uomo, una donna o un bambino irregolare è favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. E in Francia diversi processi sono già andati a sentenza per questo reato. Che cosa accadrà al piccolo rifugio di Briançon? Chiuderà? Lasciando un flusso migratorio senza sbocco? Oppure resisterà grazie alla mobilitazione? In ogni caso due sono i caposaldi di questa storia.

Il primo: la rotta, anche se con una portata minore, non scomparirà. Ancora oggi quasi quotidianamente esseri umani percorrono i fatidici 12 chilometri che separano Claviere da Briançon. Spesso di tratta di minori, perfino bambini. Il secondo: l’istituzione di corridoi umanitari intra Unione europea è una chimera in un continente che fatica a trovare una revisione degli accordi di Dublino. Ma sarebbe l’unica soluzione in grado di spostare il fenomeno migratorio in atto dal piano del volontariato semi illegale, perché di questo si parla, a una forma organizzativa statale, in grado di gestire un dinamica inevitabile: quale è sempre stata nella storia dell’umanità.

In dettaglio
A teatro con “radio international”

Una piccola redazione, una piccola radio, tre giornalisti italiani e una bambina siriana dispersa lungo la rotta alpina. Questa è la base narrativa di “Radio International”, spettacolo teatrale del regista torinese Beppe Rosso della compagnia teatrale A.C.T.I. Teatri indipendenti. Esperimento molto interessante e spericolato -il lavoro si sviluppa su cinque puntate della durata di un’ora e dieci minuti e, sebbene una sia indipendente dall’altra, la piena potenza del messaggio giunge solo se si guarda l’intero sviluppo narrativo- che entra dentro le vicende della rotta migratoria alpina dal punto di vista etico, economico e sociale. Un’analisi che parte da cosa accade in montagna ma che si sviluppa su più livelli, in primis riguardo le contorsioni del mondo giornalistico
schiacciato tra doveri etici e necessità di sopravvivenza. Una riflessione che parte dalla cronaca sui temi della contemporaneità e sui meccanismi della sua narrazione, sulle forme della comunicazione e la necessità dell’agire. Il tutto in un linguaggio da commedia che, giocando con i meccanismi della fiction, solleva con il sorriso domande non innocue. Da vedere.

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