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Tra gli sfruttati di Rosarno, otto anni dopo la “rivolta”

Nella Piana di Gioia Tauro sette migranti su dieci lavorano senza contratto in condizioni di grave sfruttamento. La denuncia di “Medici per i diritti umani”, che da cinque anni assiste i lavoratori stagionali impegnati nella raccolta di agrumi e kiwi

La tendopoli di San Ferdinando vista dall'alto © Rocco Rorandelli

Sono almeno 3.500 le persone che hanno fornito manodopera a basso costo ai produttori di arance, clementine e kiwi della Piana di Gioia Tauro (Reggio Calabria) durante il periodo della raccolta. Sono prevalentemente giovani uomini (l’età media è di 29 anni), provenienti soprattutto dai Paesi dell’Africa sub-sahariana, costretti a vivere in tende o in stabili occupati senza servizi igienici, né acqua potabile, circondati dalla puzza dei rifiuti che si accumulano in attesa di essere bruciati. Oltre sette persone su dieci lavorano senza un contratto di lavoro. Ma nemmeno i fortunati possessori di quel pezzo di carta vedono garantiti i loro diritti fondamentali: paga iniqua, orari di lavoro eccessivi, mancato rispetto dei giorni di riposo e assenza di tutele sono la quotidianità per questi lavoratori.

“La situazione che abbiamo riscontrato nella piana di Gioia Tauro rappresenta uno scandalo italiano. Uno scandalo dimenticato. Sono passati otto anni dalla cosiddetta rivolta di Rosarno ma in questo arco di tempo le condizioni di vita dei migranti non sono affatto migliorate -commenta Alberto Barbieri, coordinatore generale di MEDU (Medici per i diritti umani)-. Oggi più che mai, la Piana di Gioia Tauro è il luogo dove l’incontro tra il sistema dell’economia globalizzata, le contraddizioni nella gestione del fenomeno migratorio del nostro Paese e i nodi irrisolti della questione meridionale produce i suoi frutti più nefasti”.

I ghetti in cui vivono i lavoratori stranieri sono diventati sempre più grandi e la presenza dei migranti è diventata sempre più stabile. Le condizioni igienico sanitarie sono spaventose e lo sfruttamento lavorativo è una costante. La denuncia è contenuta nel report “I dannati della terra. Rapporto sulle condizioni di vita e di lavoro dei braccianti stranieri nella Piana di Gioia Tauro” presentato giovedì 3 maggio a Roma. Da cinque anni, MEDU è presente nell’area con il progetto “Terragiusta”, che ha l’obiettivo di portare assistenza sanitaria e orientamento sull’accesso ai diritti e ai servizi ai lavoratori stagionali impiegati nell’agricoltura. Nei cinque mesi di attività svolta nella Piana di Gioia Tauro, la clinica mobile di MEDU ha prestato assistenza a 484 persone, realizzando in totale 662 visite.

Quali sono le condizioni di salute delle persone che avete incontrato in questi mesi?
AB
Sono giovani, l’età media è intorno ai 29 anni. Abbiamo seguito soprattutto ragazzi provenienti dall’Africa Occidentale. Tra le patologie più frequenti ci sono quelle legate all’apparato respiratorio (il 22% dei pazienti) e all’apparato digerente (19%) che sono legate alle precarie condizioni di vita e agli ambienti insalubri in cui sono costretti a vivere. Dormono ammassati in baraccopoli, senza acqua potabile e spesso senza riscaldamento: le condizioni igienico-sanitarie sono tragiche. Poi ci sono le patologie legate al pesante sfruttamento lavorativo, ne soffre il 21% delle persone che abbiamo incontrato.

Esistono anche problemi di sofferenza psichica?
AB
Purtroppo sì. Lasciare il proprio Paese e trovarsi a vivere in queste condizioni è molto difficile anche dal punto di vista psicologico. Inoltre non dobbiamo dimenticare che molte delle persone che lavorano qui hanno attraversato il deserto e la Libia, hanno subito violenze e in alcuni casi torture: anche questo va a pesare sull’equilibrio psico-fisico. Abbiamo incontrato casi di depressione, sindrome da stress post traumatico.

Che cosa potrebbero fare le istituzioni per dare una risposta alla situazione di Rosarno?
AB In questi anni sono stati firmati dei protocolli per migliorare le condizioni di vita e di lavoro dei migranti: la prefettura, il ministero dell’Interno, i Comuni, la Regione, l’Asl si sono impegnati a intervenire, ma l’applicazione di questi protocolli è rimasta lettera morta. Per questo nel report abbiamo elencato una serie di raccomandazioni alle istituzioni per trovare soluzioni di medio-lungo periodo. Che vadano al di là delle risposte emergenziali che vengono messe in atto quando inizia la stagione del raccolto e qui arrivano migliaia di persone. Occorre intervenire per migliorare le condizioni abitative, attraverso programmi pluriennali di housing sociale, e quelle lavorative attraverso, ad esempio, il potenziamento dei centri per l’impiego e l’aumento dei controlli per contrastare lo sfruttamento. Oltre al rafforzamento del sistema di trasporto pubblico, l’accesso alle cure mediche e alla tutela giuridica.

È possibile un’alternativa?
AB Sì, ce lo dimostra l’esperienza di accoglienza diffusa portata avanti nel comune di Drosi da un piccolo gruppo di persone legate alla Caritas locale. Le case sfitte presenti in paese vengono affittate con canoni minimi garantendo, da un lato, un ritorno economico ai proprietari, e dall’altro condizioni di vita dignitose ai lavoratori. Il progetto è attivo da otto anni e ora sono 150 i lavoratori che hanno trovato accoglienza.

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