Terra e cibo / Opinioni
“Rinunciare al biologico per far fronte alla crisi”: la sabbia negli occhi di Syngenta
L’amministratore delegato del colosso di fertilizzanti e agrofarmaci ha attaccato l’agricoltura biologica nel tentativo di coprire il fallimento del metodo “convenzionale”. “Anziché aprire gli occhi e cambiare rotta, i forti e potenti fanno spazio al lato peggiore del modello di sviluppo consumista”, spiega Paolo Pileri
“Di fronte alla minaccia di una crisi alimentare globale, è necessario rinunciare all’agricoltura biologica”. Chi si sarebbe aspettato di sentire una affermazione del genere da Erik Fyrwald, amministratore delegato del colosso agrochimico basilese Syngenta (fonte Corriere Ortofrutticolo).
È pur vero che siamo in crisi alimentare. È pur vero che abbiamo una guerra alle porte e una pandemia alle spalle, ma sentirci dire da un amministratore delegato di un colosso dell’industria svizzero-cinese, che produce fertilizzanti e agrofarmaci a tonnellate e tonnellate, che siamo colpevoli se continuiamo a coltivare biologico, anche no. Di nuovo la stessa formula della pandemia. Anziché usare questo tempo di crisi per aprire gli occhi e impostare un cambio di modello di sviluppo, i forti e potenti lavorano a fare spazio al lato peggiore del modello di sviluppo consumista e avido di guadagni. Pare che la crisi sia l’occasione buona per buttare dalla finestra quel poco di virtuoso che abbiamo conquistato. E per convincerci a farlo si usano parole minacciose (se non dismettiamo il biologico, schiatteremo per la fame) o immagini pietose (i bimbi africani moriranno per la nostra “fissa” del bio).
Mi pare piuttosto una tattica per distoglierci da altre questioni e altre interpretazioni. Già perché potremmo parlare di sprechi alimentari (ogni italiano butta via 42 chilogrammi di cibo all’anno), potremmo parlare della nostra assurda dieta fatta di eccessi proteici e carne a iosa incoraggiata dall’industria della carne, del fatto che per produrre una unità di energia con una bistecca ne servono svariate unità da dare alla mucca sottraendole al cibo umano, ai campi monocolturali di mais che assorbono una quantità d’acqua pazzesca e servono solo per fare cibo per la filiera zootecnica, all’enorme massa di inquinanti di cui l’agricoltura tradizionale è protagonista e non certo quella biologica e così via.
Possiamo anche chiarire tutto questo con numeri. Ad esempio, ogni chilocaloria che assumiamo con carne di manzo emette più di 20 grammi di CO2 equivalente, mentre qualche unità di grammo con frutta e verdura o con riso e grano. Per assumere circa 40 grammi di proteine abbiamo bisogno di 175 grammi di carne di maiale che richiedono 3,5 metri quadrati di suolo e producono 1.122 grammi di gas serra mentre ce la potremmo cavare con 250 grammi di tofu usando 0,6 metri quadrati di terra ed emettendo 30 grammi di gas climalteranti. Una dieta vegetariana potrebbe non far emettere 600 grammi di CO2eq al giorno a persona rispetto a una dieta a medio consumo di carne.
Tutti calcoli pubblicati sul Guardian da una persona del calibro di George Monbiot (2018) e che improvvisamente diventano carta straccia. Insomma, potremmo parlare di un sacco di cose da correggere per migliorare la nostra capacità di usare suolo e agricoltura, invece e prima di far la guerra al bio in tempo di guerra. E invece ci viene detto di fermare quel che è più virtuoso e meno impattante. Altra cosa che non viene citata riguarda glifosato, erbicidi, funghicidi, insetticidi e altre porcherie prodotte dalle industrie agrochimiche, della cui famiglia Syngenta è parte, che ne incoraggiano uso e abuso nell’agricoltura intensiva (e non certo bio) in Europa come nel Sud del mondo, producendo inquinamenti inenarrabili e malattie. Non viene detto delle deforestazioni procurate da altri colossi agroindustriali in Sud America che hanno influito pesantemente sulle emissioni di CO2 in atmosfera. Non viene detto delle migliaia di aziende e finanziarie europee, americane, indiane, russe e cinesi che hanno fatto razzia di suoli agricoli in Africa sottraendoli alla sovranità alimentare locale per fare business per se stessi (si chiama land grabbing ed è una piaga per il Sud del mondo). Centinaia di migliaia di abitanti locali sono stati cacciati dalle loro terre per far spazio a produzioni agricole intensive che hanno per clienti le società ricche del pianeta. Chissà quanti bambini africani sono vittime del land grabbing da parte di queste razzie di terra, ma anche questo non viene detto. Sono tanti e ben altri i punti problematici del nostro sistema economico-sociale allo sbando. E non è certo la nicchia biologica l’imputato da processare.
Affermazioni come quelle dell’amministratore delegato sono sabbia negli occhi e attivano perfino dei processi di autoassoluzione di quanti hanno responsabilità pesanti nel cambiamento climatico e negli impatti ambientali e vanno a convincere tutti noi, già vittime delle decisioni sbagliate altrui, che siamo colpevoli dei disastri nell’esatto momento in cui adottiamo comportamenti virtuosi. Capite? È assurdo e grave. Sono frasi che tentano di addomesticare il pensiero vomitandoci addosso affermazioni che ci spezzano le gambe. In più, permettetemi, giungono da una multinazionale a capitale cinese dove la Cina, come sappiamo dalla stampa, mantiene una posizione di simpatia per la Russia che ha aggredito l’Ucraina. E per non farci mancare nulla, viene addirittura detto che le colture biologiche favoriscono il consumo di terra. Si arriva addirittura a farci pensare che il consumo di suolo ora sia un problema fomentato dalle colture biologiche: mai sentito prima.
Anche qui vale la pena ricordare come stanno le cose con alcuni numeri: per produrre 1 chilogrammo di fesa di manzo occorrono 27 metri quadrati di terra, mentre 0,30 metri quadrati per 1 chilogrammo di patate o 0,4 per un chilogrammo di piselli cotti, a parità di chilocalorie assunte (per scoprirlo, basta scorrere le Tabelle di composizione degli alimenti dell’Istituto nazionale di ricerca per gli alimenti e la nutrizione). E non aggiungo altro. Insomma, siamo circondati da narrazioni ad arte per ribaltare tutto e buttare in pattumiera il poco buono che c’è. Speriamo che nessun politico replichi quelle affermazioni irricevibili e speriamo che il mondo scientifico e del biologico alzino la voce per darci una narrazione corretta e ordinata, per rimettere le buone cose nel posto che meritano e fare luce sugli enormi difetti di questo insostenibile modello di sviluppo che si continua a tenere in buona vita e a sovvenzionare.
Paolo Pileri è ordinario di Pianificazione territoriale e ambientale al Politecnico di Milano. Il suo ultimo libro è “L’intelligenza del suolo” (Altreconomia, 2022)
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