Diritti / Attualità
Rimpatri forzati in Sudan, il ricorso contro l’Italia davanti alla Corte europea
Il 24 agosto 2016, 40 cittadini sudanesi furono caricati su un volo e riportati da Ventimiglia a Khartoum. Contro la loro volontà, negandogli qualsiasi diritto di difesa e senza un documento tra le mani. A sei mesi dai fatti, cinque di loro hanno fatto ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo contro il nostro Paese
H.M., oggi, vive nei dintorni di Khartoum, la capitale del Sudan. Non lo fa per scelta ma perché costretto a evitare il “suo” Darfur per salvarsi la vita. Il Governo dittatoriale del presidente Omar Al Bashir, del resto, gli ha imposto a metà 2016 il divieto di espatrio per cinque anni. Niente passaporto, nessuna possibilità di fuga “regolare”.
Dario Belluccio e Salvatore Fachile, gli avvocati dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (ASGI, www.asgi.it), sono andati a incontrarlo in una località discreta della capitale verso la fine del dicembre 2016, grazie a una delegazione di europarlamentari del gruppo GUE/NGL. H.M. aveva una storia da raccontare che coinvolge il nostro Paese. Lo stesso che, in forza di un accordo siglato dalla polizia italiana e quella sudanese il 3 agosto scorso, mai avvallato ufficialmente da Parlamento o Governo, ha inflitto a lui e ad altri 39 concittadini un inedito rimpatrio collettivo forzato a bordo di un volo aereo e che dal 13 febbraio di quest’anno è giunto all’attenzione della Corte europea dei diritti dell’uomo sotto forma di ricorso. L’accusa nei confronti dell’Italia è pesante: aver violato, tra le altre cose, il divieto di tortura scolpito all’articolo 3 della “Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”, rispedendo potenziali richiedenti asilo in una terra “che sottopone sistematicamente i suoi cittadini a trattamenti disumani e degradanti”.
Facciamo un passo indietro. È il 29 luglio 2016. H.M. -le iniziali sono di fantasia- giunge in Italia dal mare. Nessuno gli fornisce informazioni, legali o logistiche. Così viaggia verso Nord, passando da Roma e poi raggiungendo Ventimiglia, soglia di transito bloccata nella Fortezza Europa di questi anni. Il 18 agosto è tratto in arresto e, stando agli avvocati che hanno ricostruito quelle giornate nel ricorso presentato alla Corte di Strasburgo (per conto di cinque “ricorrenti”), “preso a schiaffi e poi forzato dito per dito a lasciare le proprie impronte”. Resta in caserma per cinque giorni. Nessuno, come racconta agli avvocati, gli dice nulla circa l’opportunità di avanzare una domanda di protezione e di asilo. Eppure giunge dalla provincia del Darfur, dove la maggioranza non araba è perseguitata da quel dittatore ricercato dalla Corte penale internazionale dell’Aja che gli negherà l’espatrio.
Il volto dell’Italia, per H.M., non si mostra nemmeno sotto forma di un atto scritto o un provvedimento di espulsione. Dopo un breve incontro con un funzionario dell’Ambasciata sudanese in Italia -circostanza confermata ad Altreconomia già quest’estate dal Console- i fermati (H.M. compreso), senza alcuna possibilità di incontrare avvocati o operatori legali, vengono portati a Torino dalle autorità italiane e imbarcati su un volo della Egyptair “solo andata” a Khartoum (la gara pubblica per l’aggiudicazione del volo era stata effettuata due settimane prima, il 12 agosto).
Quando capiscono che il viaggio punta pericolosamente alla casella di partenza (“Uno dei luoghi più pericolosi del mondo, governato dalla violenza e dall’impunità”, scrivono gli avvocati nel ricorso anche sulla base delle denunce tra gli altri della Ong Human Rights Watch), i migranti resistono. Vengono ammanettati, legati con “fascette in velcro”. Alcuni di loro gridano così forte che i piloti del velivolo li fanno scendere per “ragioni di sicurezza”. È la loro salvezza, visto che tutti e sette otterranno lo status di rifugiato.
Non H.M., che su quel volo è rimasto ed è atterrato in Sudan. L’avvocato Belluccio ha seguito il suo caso “fin dall’inizio”, come racconta. “Prima della presentazione del ricorso c’è stato un lungo lavoro di rete -spiega- condotto con coloro che erano sfuggiti al rimpatrio e con coloro che invece erano stati rimpatriati in Sudan”. È stato “faticoso” annodare un filo di dialogo con questi ultimi. Del resto, come spiega l’avvocato, “si trattava di ricostruire la fiducia con persone che avevano subito dall’Italia un trattamento irriguardoso verso la loro storia di vita”. E per rianimare quel legame reso orfano di diritti, Belluccio e Fachile -affiancati dalla delegazione di europarlamentari- si sono recati in Sudan il 22 dicembre 2016, atterrando a Khartoum e incontrando H.M. in una località scelta da lui. “Nonostante tutte le precauzioni -racconta l’avvocato Belluccio- i servizi di sicurezza del Paese ci hanno sottoposto a un lungo interrogatorio dopo il nostro incontro con i ricorrenti. Gli abbiamo spiegato di non avere nessuna intenzione di ottenere informazioni sul loro Paese quanto sul trattamento della Polizia italiana. Ma loro ci hanno detto ‘se la polizia italiana ha fatto qualcosa l’ha fatto sicuramente per bene. E se noi vi portiamo in una caserma facciamo bene perché siamo la polizia’”. L’episodio è finito nell’esposizione dei fatti che accompagna il ricorso. È una scelta precisa quella degli avvocati. Punta infatti a raccontare alla Corte -che dovrà valutare in questi mesi la “ricevibilità” dell’atto- il “clima” che si respira nel Paese con il quale l’Italia -o meglio, il capo della Polizia- ha stipulato un accordo di cooperazione sui rimpatri.
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