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Rifugiati obiettori

Chi rivendica il diritto d’asilo per non finire a combattere guerre ingiuste è poco tutelato dall’ordinamento italiano. Ecco la storia di Dimitri, che si rifiuta di tornare in Ucraina e prender parte a un conflitto che non concepisce. Come vengano valutati casi analoghi è una questione che il Viminale preferisce non affrontare pubblicamente. Dati statistici concernenti le decisioni di riconoscimento dello status per quella che il ministero chiama “renitenza alla leva” non vengono infatti “rilevati”

Tratto da Altreconomia 172 — Giugno 2015

“Chiedo asilo perché non sono capace di fare la guerra, e non mi interessa imparare”. Dimitri è un ragazzo ucraino neanche trentenne. Tre giorni prima della nostra stretta di mano, a metà aprile di quest’anno, si è recato in questura e ha presentato domanda di riconoscimento dello status di rifugiato. A fine marzo, infatti, la guerra che è in corso nel suo Paese è venuta a fargli visita dinanzi alla porta di casa, sotto forma di cartolina: “Mobilitazione militare”, spiega. Convocazione immediata, entro 9 ore. La mattina del recapito lui non c’era, per fortuna: si trovava in Italia, per ritrovare degli amici fraterni. L’ha ritirata sua moglie,  che è rimasta  là. “Verrò mandato a combattere e ad usare le armi contro coloro che sono ucraini come me, che fanno parte della nazione Ucraina, dovrò sparare a dei civili che potrebbero essere miei parenti, o conoscenti”, sono le parole che Dimitri (il suo nome reale è un altro) ha scritto nella memoria allegata alla richiesta d’asilo. Se tornasse in Ucraina da obiettore rischierebbe da due a cinque anni di carcere. Il funzionario che a metà aprile registra in questura il suo sconforto gli rilascia il “verbale di notifica per la convocazione per l’audizione presso la Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Milano”. Sul foglio ci sono indirizzo -Corso Monforte, presso la prefettura- e data -18 agosto 2016, ore 9-. Giusto il tempo di attendere 480 giorni -un terzo dei quali senza poter lavorare, per legge-, quando la normative italiana, recependo la Direttiva europea 2005/85, prevede un termine “ordinatorio” (ma non “perentorio”) per il colloquio di “trenta giorni dal ricevimento della domanda”. Nel 2014 su 64.886 casi di richiedenti asilo le pratiche esaminate sono state 36.330 -anche risalenti nel tempo-. Di queste ultime, 3.649 hanno avuto come esito il riconoscimento dello status di “rifugiato”. A quel 10% va però sommato il 22% cui è stata riconosciuta la protezione “sussidiaria” (per l’Ue è quando “sussistono fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel Paese di origine, (il cittadino di un Paese terzo, ndr) correrebbe il rischio effettivo di subire un grave danno”) e il 28% con “protezione umanitaria” (“seri motivi di carattere umanitario che giustificano la permanenza del richiedente sul territorio nazionale”).

Se la procedura è lenta, la crescita del numero dei richiedenti è esponenziale. Tra il 2013 e il 2014 questi sono aumentati del 56%, con un picco registrato proprio alla voce “Ucraina”. Due anni fa i richiedenti asilo del Paese di Dimitri erano 34. Un anno dopo sono stati 2.149, più 6.221%. Il secondo Paese ad aver registrato il maggiore incremento è il Bangladesh, più 888%.
Quanti altri Dimitri vi siano, ucraini e non, tra i richiedenti asilo del nostro Paese -e come vengano valutati i loro casi- è una questione che il ministero dell’Interno italiano preferisce non affrontare pubblicamente. Dati statistici concernenti le decisioni di riconoscimento dello status per quella che il Viminale chiama “renitenza alla leva” non vengono infatti “rilevati”. I “requisiti per essere considerato rifugiato” sono stati nuovamente dettati dal Parlamento e dal Consiglio europeo nel dicembre 2011 (direttiva 95). All’articolo 9 (“Atti di persecuzione”) rientrano anche le “azioni giudiziarie o sanzioni penali in conseguenza al rifiuto di prestare servizio militare in un conflitto quando questo -recita la direttiva- comporterebbe la commissione di crimini, reati” anche contro l’umanità o contro i principi delle Nazioni Unite. L’obiezione di coscienza secondo l’Unione europea non rappresenta di per sé una motivazione sufficiente per meritare la protezione. Occorre qualcosa in più. Ma nel 2014 (decreto legislativo 18 del 7 marzo) il nostro Paese è riuscito addirittura a peggiorare quel principio. Quelle “azioni giudiziarie o sanzioni penali” previste dall’Ue, infatti, sono diventate “sproporzionate o discriminatorie che comportano gravi violazioni di diritti umani fondamentali”. È una “grave violazione” di un diritto umano finire in carcere per due o cinque anni come disertore?, è la domanda che perseguita Dimitri. Secondo Paolo Oddi, avvocato esperto in diritto degli stranieri e membro dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (asgi.it), quello italiano è un recepimento che travalica la direttiva Ue, limitando fortemente il riconoscimento dell’obiezione di coscienza. E qui si apre una questione diplomatica: il governo dell’Ucraina presieduto da Petro Poroshenko e il suo esercito sono sostenuti dalla comunità internazionale, Italia compresa, nella guerra che lo vede contrapposto a Est al cosiddetto schieramento “separatista”, vicino alla Russia. “Io sono ucraino -sostiene Dimitri- ma non me la sento di rispondere alla chiamata dell’esercito, perché lo Stato e il Governo ucraino non mi proteggono, come si dice mi usano come legna da bruciare”. All’inizio del maggio di quest’anno i morti civili nel  conflitto nel Donbass erano 7mila, nonostante la  teorica tregua annunciata dopo gli accordi di Minsk (febbraio 2015). Damiano Rizzi è fondatore e presidente di Soleterre (soleterre.org), una Ong che opera in Ucraina. Per Altreconomia edizioni ha scritto “La guerra a casa”, testimonianza autentica dei conflitti che ha attraversato in questi anni. Conosce bene quel Paese: “Con gli accordi di Minsk -spiega- è stato istituito il protettorato dell’OSCE, ma si sta ancora combattendo. La situazione è di totale abbandono e la popolazione è messa alla fame, specie nella parte sotto il controllo delle repubbliche auto-proclamatesi. Non c’è più assistenza sociale, che già era in condizioni pietose. Di notte si continua a sparare e ci sono costantemente morti. Lo stereotipo del ‘è finito tutto’  è insostenibile e il fenomeno dei renitenti alla leva parrebbe essersi innalzato”.

Il motivo? “La sfiducia nei confronti della conduzione bellica da parte dell’esercito e in quegli organi governativi che invitano i soggetti a realizzarlo. È pur vero che il decreto di arruolamento impedirebbe di inviare i soldati di leva al fronte, fornendo solo assistenza nelle retrovie, ma la realtà è diversa e la gente finisce per combattere”. Lì Dimitri non ci vuole andare e una recente denuncia dell’osservatorio internazionale Human Rights Watch (marzo 2015, hrw.org) ha dato manforte al suo timore: “L’esercito governativo e i filo-russi hanno ripetutamente fatto uso di bombe a grappolo tra il gennaio e il febbraio 2015, uccidendo 13 civili, di cui due bambini […]. Tutto ciò potrebbe costituire un crimine di guerra”. A Dimitri, ora, non resta che aspettare il parere che tra un anno e due mesi giungerà dalla Commissione territoriale di Milano (sono venti in tutto il Paese). La norma gli assicura un permesso della durata di tre mesi, rinnovabile di volta in volta. Qualora la Commissione dovesse respingere la richiesta potrebbe ricorrere al giudice civile. Non andrà in nessun centro accoglienza perché ad ospitarlo durante tutto il periodo transitorio ci penserà una famiglia della Brianza. “Giancarlo -racconta Dimitri- dice che lo farà perché mi conosce da tanti anni ed anche perché, facendo così, a distanza di 70 anni ricambia ad un ucraino in difficoltà quello che una famiglia ucraina fece aiutando suo padre a superare il lungo e rigido inverno 1942-1943, durante la seconda guerra mondiale, quando lui era appunto in Ucraina con il reggimento Savoia Cavalleria”. —

Un diritto negato
A febbraio la Corte di giustizia europea è tornata a esprimersi a proposito di “renitenti” e diritto d’asilo. E l’ha fatto per via del caso di Andre Lawrence Sheperd, un cittadino degli Stati Uniti che di professione ha fatto il tecnico per la manutenzione degli elicotteri. Nel dicembre 2003 si arruola nelle forze armate Usa e, dopo una parentesi in Germania, viene inviato in Iraq nel settembre 2004. Due anni dopo aver fatto rientro in Germania, nel febbraio del 2007, riceve l’ordine di missione per tornare in Iraq. Lui, però, si rifiuta, non volendo più partecipare a una guerra che reputa illegittima nonché teatro di crimini di guerra. Nell’agosto 2008 presenta la domanda di asilo dinanzi alle autorità tedesche, temendo di poter essere perseguito al suo ritorno in patria. Il 31 marzo 2011, però, il Bundesamt für Migration und Flüchtlinge respinge la sua istanza dando il la al ricorso che ha portato, il 26 febbraio 2015, la Corte a prender posizione. Una posizione dura, contraria a Sheperd: secondo la Corte, le pene previste negli Usa -fino a cinque anni per “diserzione”, compreso il “congedo con disonore”- risponderebbero al “legittimo diritto” di un Paese a “mantenere una forza armata” e l’onere della prova che un conflitto sia fonte di crimini efferati è sulle spalle del richiedente. 

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