Interni / Inchiesta
40mila richiedenti asilo tagliati fuori dal sistema di accoglienza in due anni
58 prefetture italiane hanno espulso dal circuito di accoglienza del nostro Paese 40mila richiedenti asilo. È il risultato di un utilizzo sproporzionato della “revoca” che deriva da una norma interna in contrasto con il diritto dell’Unione europea. E che potrebbe portare l’Italia di fronte alla Corte di giustizia
Tra il 2016 e il 2017, 58 prefetture italiane hanno espulso dal sistema di accoglienza del nostro Paese 40mila richiedenti asilo. Persone, prima ancora di numeri, delle quali gli uffici governativi ignorano le sorti (sistemazione, mezzi di sussistenza, stato di salute), mentre il ministero dell’Interno non ha ancora reso disponibile un quadro complessivo su scala nazionale promesso a inizio 2018. L’inchiesta di Altreconomia sulle revoche delle misure di accoglienza disposte dai prefetti nell’ultimo biennio continua. A pesare sull’esplosione dei numeri sono in particolare i dati relativi a Roma, dove i migranti “revocati” sono stati addirittura 4.408, Brescia (2.222) o Caserta (1.686).
L’utilizzo sproporzionato dello strumento amministrativo è evidente e ha assunto ormai una dimensione nazionale. La ragione? La nostra norma interna non sarebbe conforme al diritto comunitario; un recepimento improprio che potrebbe portare l’Italia e il suo ordinamento di fronte alla Corte di giustizia dell’Unione europea.
Facciamo un passo indietro. Le prefetture -come prevede il decreto legislativo 142/2015, la norma che è andata a recepire due direttive europee sull’accoglienza e sulle procedure di riconoscimento dello status di rifugiato (la 2013/33 e la 2013/32)- possono ricorrere alla revoca dell’accoglienza dei richiedenti asilo in diversi casi. I più frequenti sono la “mancata presentazione presso la struttura individuata ovvero l’abbandono del centro di accoglienza da parte del richiedente, senza preventiva motivata comunicazione” oppure la “violazione grave o ripetuta delle regole delle strutture […] compreso il danneggiamento doloso di beni mobili o immobili, ovvero comportamenti gravemente violenti”.
Al tempo della prima puntata dell’inchiesta -pubblicata sul numero di marzo di Altreconomia- le prefetture disponibili a comunicare i dati erano state 35 (su poco più di 100) e circa 22mila i provvedimenti certificati. Alla fine di maggio quei numeri sono quasi raddoppiati: 58 uffici per 39.963 revoche.
La prefettura di Roma, come detto, dopo aver comunicato soltanto i provvedimenti di revoca per violazione delle regole dei centri di accoglienza -pochissimi, 233- ha trasmesso su nostra richiesta anche quelli “conseguenti all’allontanamento volontario degli ospiti”. Oltre 4mila. Lo stesso ha fatto Brescia: erano appena 37 le revoche per violazione delle regole, oltre 2mila quelle per allontanamenti. Dopo essersi rifiutata di rispondere dal momento che “il ministero dell’Interno ha rappresentato di non dar seguito” alla nostra richiesta, la prefettura di Pavia ha fatto retromarcia: 1.084 revoche, quasi il doppio di Monza e Brianza (689). Dalla Liguria è giunto anche il riscontro di Savona (742), mentre Taranto ha rotto il “silenzio” della Puglia dando conto di 446 provvedimenti. Novità anche da Trapani (1.286), Ferrara (309), Pesaro Urbino (1.196), Grosseto (708).
Tra i grandi centri ha risposto anche Torino, dove tra 2016 e 2017 i richiedenti destinatari di revoca sono stati 678.
Già a marzo, Gianfranco Schiavone, presidente del Consorzio italiano di solidarietà-Ufficio rifugiati Onlus di Trieste e vice presidente dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (ASGI), aveva sottolineato la distanza profonda tra la normativa comunitaria che il nostro Paese ha recepito nel 2015 e la nostra “norma interna”. Facendo riferimento in particolare alla direttiva 2013/33 che riguarda l’accoglienza dei richiedenti asilo, infatti, si può vedere che alla “revoca” è dedicato un articolo che s’intitola “Riduzione o revoca delle condizioni materiali di accoglienza” (Art. 20). “La direttiva europea ci dice che in tema di revoca dell’accoglienza bisogna far ricorso a un principio di gradualità, che invece in Italia non è stato minimamente rispettato”, spiegò Schiavone.
Non solo. Mentre la direttiva prevede che le revoche debbano essere “adottate in modo individuale” e in ogni caso garantendo “l’accesso all’assistenza sanitaria” e un “tenore di vita dignitoso per tutti i richiedenti”, in Italia si provvede in alcuni casi con maxi decreti di revoca dalla frequenza mensile che “colpiscono” gruppi di richiedenti, e non invece singoli. Avviene ad esempio a Roma, come riconosciuto dalla stessa prefettura, così come a Enna. Non è noto invece cosa avvenga a Viterbo, dove la nostra richiesta, come ci è stato detto, è stata inoltrata al responsabile della sezione “Emergenza Profughi”. La vera “emergenza”, semmai, è l’ennesima inefficienza del circuito di accoglienza del nostro Paese fotografata dal “caso revoche” e che si scarica direttamente sulle vite delle persone. Un argomento che non trova spazio nel gridato dibattito su immigrazione e accoglienza, distratto da promesse di “rimpatri”, “respingimenti” e da un demagogico “stop al business”.
“ I dubbi di legittimità sono così evidenti -riflette Schiavone- che un giudice italiano, nell’ambito di un ricorso, dovrebbe sospendere la propria decisione e decidere per un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea alla quale spetta pronunciarsi sulla non conformità della norma interna con il diritto dell’Unione. In caso di accoglimento del ricorso, il legislatore nazionale dovrebbe rivedere la norma adeguandola a quanto disposto dalla Corte. Dovrebbero invero essere le stesse prefetture a muoversi con maggiore attenzione e consapevolezza poiché l’autorità amministrativa quando riscontra una difformità tra la norma interna e il diritto dell’Unione è tenuta comunque ad applicare quest’ultimo in quanto norma sovraordinata e ovviamente dovrebbe investire il ministero della problematica”
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