Diritti / Reportage
Respinti alla luce del sole. Che cosa sta succedendo al confine tra Italia e Slovenia, a danno dei diritti umani
Reportage da Trieste e dal confine tra Slovenia e Croazia. Con l’emergenza sanitaria dovuta al Covid-19, i governi hanno inasprito i controlli alle frontiere e lungo tutti i sentieri. “Murat, un giovane afgano arrivato in Piazza della Libertà a Trieste, ha le scarpe distrutte e cammina a fatica ma la sua paura è quella di essere preso e respinto di nuovo”. Rafforzate le “riammissioni” da parte del Viminale
Le urla dei bambini, le risate dei genitori e un gommone che scorre lungo il fiume Kolpa, meta turistica di molte famiglie italiane e tedesche amanti della natura. In mezzo ai boschi che circondano il fiume probabilmente c’è un’altra famiglia, siriana o afgana, che vede il fiume come un ostacolo sulla loro rotta, quella balcanica. Si devono nascondere perché passare il fiume di giorno è troppo pericoloso. A chiudere il quadro che sembra uscito da un romanzo distopico c’è una rete metallica con un filo spinato lunga 25 chilometri e alta quasi tre, che cinge il fiume sulla sponda slovena.
“Quando siamo usciti dal lockdown abbiamo scoperto che in quelle settimane avevano costruito questa nuova barriera”, racconta Andrea, la proprietaria di un campeggio di Radenci, un piccolo paese che si affaccia sulla sponda slovena del fiume. “Abbiamo bloccato la costruzione della barriera in alcuni punti del fiume, ma è stato possibile solo per garantire l’accesso ai turisti”, dice mentre dal suo campeggio una famiglia tedesca prende un gommone e i giacchetti salvagenti per fare rafting. Il cambio di governo in Slovenia avvenuto lo scorso marzo ha dato una svolta alle politiche securitarie e contro i migranti del piccolo Paese balcanico. Il nuovo premier Janez Janša viene accusato di attuare la “orbanizzazione” della Slovenia per le similitudini nelle politiche e nei modi del leader ungherese, tanto che ha fatto costruire una nuova barriera lungo il confine con la Croazia.
Murat, arrivato in Piazza della Libertà, ha le scarpe distrutte e cammina a fatica ma la sua paura è quella di essere preso e respinto di nuovo
“La Slovenia è un un Paese di transito, ha solo 300 richiedenti asilo su tutto il territorio, ma spende una parte importante del budget per la sicurezza e per bloccare i migranti”, racconta Zana, attivista di Ambasada Rog, un centro che dà assistenza ai richiedenti asilo. Con gli altri volontari ogni giorno apre la cucina del centro che gestiscono e prepara per chi ne ha bisogno. “I centri per i richiedenti asilo sembrano caserme e molti preferiscono venire qui a mangiare”, spiega mentre prepara il pranzo per tutti e aggiunge: “Il problema vero sono quelli che non riescono a chiedere asilo. La polizia e l’esercito pattugliano i confini e i boschi e se trovano dei migranti li caricano sul furgone e li portano in Croazia, che a sua volta li porta sul confine bosniaco”. C’è una legge in Slovenia per la quale se dimostri di essere sul territorio nazionale da almeno 72 ore puoi chiedere asilo, altrimenti vieni respinto. Chi arriva a Lubiana è salvo perché a piedi ci vogliono più di 72 ore, mentre chi viene preso fuori città, anche vicino, viene deportato all’istante.
Zana racconta di alcuni migranti che hanno chiesto asilo prima di essere deportati e la polizia faceva finta di non capire. “Ripetevano parole simili ma di significato completamente diverso. Questo per giustificare il fatto di non attuare la procedura di richiesta d’asilo”, continua l’attivista. “L’Italia li deporta da noi e noi li deportiamo in Croazia, sapendo che quest’ultimi useranno la violenza fisica contro i migranti e li respingeranno in Bosnia. Noi siamo in Europa da poco tempo ma non avremmo mai pensato che sarebbe potuto succedere così, alla luce del sole”.
Chi invece arriva dalla Bosnia direttamente a Trieste lo si riconosce dall’andatura incerta, dai pantaloni strappati e dalle scarpe mezze rotte. Quando Lorena Fornasir, fondatrice dell’associazione Linea d’Ombra dice “Eccoli, stanno arrivando” è perché ha riconosciuto nell’andatura e nel vestiario tutta la fatica della traversata.
Spesso sono feriti. Le lacerazioni sono dovute ai passaggi nei fitti boschi in Croazia e in Slovenia, altre sono più vecchie ed infette. “La polizia croata colpisce soprattutto le gambe prima di riportarli al confine con la Bosnia, così sono costretti ad aspettare che guariscano prima di ripartire, ma spesso non c’è tempo e ripartono prima della guarigione”, afferma Lorena mentre si prende cura delle ferite dei tre ragazzi afgani.
Con l’emergenza sanitaria dovuta al Covid-19, i governi hanno inasprito i controlli alle frontiere e lungo tutti i sentieri. Murat, un giovane afgano arrivato in Piazza della Libertà poco dopo i primi tre, ha le scarpe distrutte e cammina a fatica ma la sua paura è quella di essere preso e respinto di nuovo. “Abbiamo provato tante volte, quasi sempre ci hanno fermato in Croazia, a volte in Slovenia ma l’ultima volta eravamo in Italia, eravamo arrivati. La polizia ci ha preso e ci siamo ritrovati di nuovo in Bosnia il giorno successivo”, racconta.
Camminando lungo i sentieri sul confine tra Italia e Slovenia è facile incontrare i militari che pattugliano e a poche centinaia di metri da uno dei punti di frontiera c’è Casa Malala, una casa di prima accoglienza gestita dal Consorzio italiano di solidarietà e dove, giusto all’ingresso, l’esercito ha costruito un tendone in cui vengono portati i migranti prima di essere respinti in Slovenia.
“C’è tanta paura di essere presi e rimandati indietro, fino a qualche mese fa questo era un luogo di prima accoglienza e venivano direttamente loro a bussare alla porta, mentre ora si nascondono o addirittura cambiano rotta e vanno verso Gorizia e Udine per evitare i militari” mi racconta Marco Albanese, uno degli operatori del consorzio.
I circa 200 chilometri che separano la Bosnia dall’Italia sono lunghi da percorrere a piedi, soprattutto se bisogna nascondersi nei boschi, ma brevi se vengo fatti in macchina o con i furgoni della polizia. In poche ore le persone vengono fermate in Italia, gli viene impedito di chiedere asilo e vengono consegnate alla polizia slovena, che a sua volta le consegna a quella croata, che le porta al confine con la Bosnia, usando la violenza fisica per costringerli a passare la confine. È qui che il meccanismo si ferma: la Bosnia è la frontiera esterna all’Unione europea e non è possibile consegnare a loro i profughi. Gianfranco Schiavone è il vice presidente dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (asgi.it) e presidente del Consorzio italiano di solidarietà, che ha la sua base proprio a Trieste. “Questo sistema non lascia tracce, viene fatto in poche ore e senza documentazione in modo che le persone non possano fare ricorso o denunciare quello che avviene. A noi sembrerebbe assurdo che ci venisse fatta anche solo una multa senza notifica, immaginate se venissimo deportati” racconta Schiavone. “È un sistema ben collaudato che vede agire tre Paesi membri dell’Unione europea al di fuori della loro stessa legge”.
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