Diritti / Reportage
Reportage tra i profughi afghani bloccati in Bosnia ed Erzegovina
Mohammed, 19 anni, è in viaggio da quattro: per trenta volte ha provato il “game” e il passaggio del confine con la Croazia. Senza successo. In Bosnia ed Erzegovina, lungo la rotta balcanica, le persone in transito vivono in case abbandonate e senza elettricità. Mentre a Lipa si sta per aprire un nuovo campo
“Ma è vero che la Croazia e l’Unione europea hanno aperto i confini?”. A fine agosto, questa domanda ricorre spesso in Bosnia ed Erzegovina, nel cantone di Una-Sana, dove circa quattromila migranti stanno provando a lasciare i Balcani per arrivare in Italia e proseguire verso Ventimiglia e da lì verso il Nord Europa. Non sappiamo chi abbia diffuso questa finta notizia, ma tutte le persone migranti sono convinte che sia vera e sono ancora più invogliate e partire per il game.
Giovani uomini che viaggiano soli, minori accompagnati e tante famiglie: è questa la composizione di chi oggi si trova tra Bihać e Velika Kladuša. Sono disseminati tra le decine di case di campagna, isolate e senza acqua e elettricità, che hanno sostituito le grandi fabbriche e i palazzi occupati, dove fino allo scorso inverno vivevano centinaia di persone e che ora sono chiuse con reti metalliche e circondate dal nastro giallo della polizia bosniaca. “È diventato come in Grecia e in Serbia: la polizia ti ferma in strada e ti porta nei campi che sembrano prigioni e sono lontani dal confine, lo fanno per scoraggiarti a partire” racconta Alì, un ragazzo afghano che vive in una casetta diroccata tra Bihać e Velika Kladuša, i due centri di snodo principale.
La Bosnia ed Erzegovina, nei piani di chi è su questa rotta doveva essere solo un punto di passaggio dove fermarsi qualche giorno e ripartire subito, invece per molti di loro è divenuto il punto in cui vengono riportati indietro ogni volta che provano a passare di nuovo il confine.
“Sono in Bosnia da due anni, ho provato più di trenta volte e sempre senza successo ma continuerò a farlo in questi giorni perché voglio andare via da qua prima che aprano il nuovo campo di Lipa”, racconta Mohammed, afghano di 19 anni che è in viaggio da quattro e che incontriamo a bordo strada vicino a Lipa, mentre con dei suoi amici lava i vestiti in un ruscello. “Ci prepariamo per il game: a Lipa si sta male e da giorni siamo senza elettricità e acqua. Dobbiamo partire prima che ci spostino nei container del nuovo campo”, dice Mohammed mentre aspetta che i panni si asciughino in una giornata di sole arrivata dopo molta pioggia.
Il “campo nuovo”, come lo chiama Mohammed, sorge sulle ceneri di quello bruciato a dicembre 2020 ma quando si scollina dalla strada sterrata e si arriva sulla piana che lo ospita, il colpo d’occhio è molto diverso rispetto allo scorso inverno. I container e l’insieme delle strutture sono il doppio rispetto a dicembre 2020: la nuova struttura, infatti, è stata pensata per ospitare circa 1.500 persone, principalmente uomini soli. Ma “ci sarà anche una spazio per le famiglie” fanno sapere le autorità bosniache. La loro idea è quella di concentrare tutta l’accoglienza in questo posto sperduto, a trenta chilometri dalla prima città e che in inverno è totalmente isolato a causa della neve.
A Bihać sono stati chiusi i campi Bira, per uomini soli, e Sedra, pensato per le famiglie, mentre a Velika Kladuša a breve verrà chiuso anche Miral e resteranno operativi solo “Borici”, anche questo per famiglie e persone vulnerabili, e Lipa, destinato a essere il catalizzatore del flusso del cantone di Una-Sana. In questi giorni le tende del campo di Lipa ospitano circa 300 persone, respinte negli ultimi giorni dalla polizia croata e con ferite ben visibili. “Andiamo a Lipa per riposarci tre o quattro giorni, giusto il tempo di far passare tutto e ripartire”, dicono dei giovani afghani accampati sul ciglio della strada, sotto una panchina del bus che da Velika Kladuša porta a Bihać. “Siamo stati respinti stanotte, all’alba ci hanno lasciato sulla sponda del fiume e abbiamo dovuto guadarlo davanti alla polizia. Ci tenevano da tre giorni in una stanza senza mangiare e bere. Per questo per qualche giorno è meglio stare a Lipa e poi riprovare” racconta uno di loro mentre mangiano in circolo.
L’autunno qui è alle porte e la sera le temperature sono sotto i 10 gradi, dormire in scheletri di case o all’addiaccio inizia a essere difficile senza giacca e sacco a pelo e le famiglie che hanno lasciato il campo di Borici per provare il game sono in difficoltà. “Dall’Afghanistan non ci può aiutare nessuno, i money transfer sono chiusi e non possiamo ricevere soldi. Abbiamo bisogno di vestiti più pesanti, cibo e medicine, soprattutto medicine. Mia mamma sta male ha dolori alla schiena e alle gambe. È colpa della guerra, ha distrutto anche la nostra casa”, dice Kala, una ragazza che vive a Bojna, un piccolo villaggio a circa cento metri dal confine croato. La loro casa è uno scheletro di cemento con delle tende dentro e dei panni stesi fuori. Attorno solo prato che si confonde con i boschi che segnano il confine.
“Noi nei campi non vogliamo andare, ci troviamo male perché spesso siamo con persone con le quali non andiamo d’accordo e diventa una vita difficile. Tra qualche giorno riproviamo il game ma con mia madre così e i miei dolori è difficile passare la Croazia”, aggiunge. I “suoi dolori” sono dovuti al teaser che una poliziotta croata ha usato sulla gamba e sulle spalle, cammina con difficoltà e non muove il collo. Di antidolorifici ne avrebbe bisogno anche lei, non solo la mamma.
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