Esteri / Reportage
L’attesa senza fine dei profughi africani nel limbo del Mozambico
Maratane, l’unico campo di accoglienza del Paese, ospita circa 9.500 persone. Sulla carta hanno la possibilità di spostarsi e integrarsi, ma in realtà non possono lavorare né acquistare terra. Restando così imprigionati
Juma è intento a giocare con i suoi amici fra le capanne quando incuriosito si ferma a chiacchierare: “Ho sette anni e sono nato qui. Non sono mozambicano, ma nemmeno burundese. Conosco solo questo posto… Si potrebbe essere di Maratane e basta?”. È uno dei “nati rifugiati”, apolidi senza garanzie e senza futuro che vive all’interno del campo profughi di Maratane, a circa 25 chilometri di strada sterrata dalla città di Nampula nel nord del Mozambico.
Nell’immaginario comune si crede che chiunque sia costretto a fuggire dai numerosi conflitti e crisi umanitarie che affliggono periodicamente il continente africano decida di dirigersi verso Nord in cerca di un luogo sicuro dall’altra parte del Mediterraneo. In realtà negli ultimi 20 anni migliaia di rifugiati hanno scelto la direzione opposta, verso il Sudafrica. Lungo una di queste rotte migratorie, 15 anni fa, è nato Maratane, l’unico campo profughi del Mozambico. Attualmente ospita 9.500 persone (sui 25mila rifugiati stimati nel Paese) provenienti per lo più dalla regione dei Grandi Laghi africani. La maggior parte proviene dal Nord-Est della Repubblica Democratica del Congo (RDC) e dal Burundi, ma ci sono anche ruandesi, somali ed etiopi. Culture diverse, e soprattutto gruppi etnici e nazionalità spesso in conflitto tra loro nelle terre d’origine, rendono la convivenza difficile. “Viviamo le conseguenze di ciò che abbiamo vissuto nel nostro Paese -spiega il congolese Louis-. Non è raro che le persone si ritrovino casualmente di fronte il proprio torturatore”. Nonostante ciò, col tempo si è venuto a creare un certo equilibrio, favorito anche dall’utilizzo della lingua francese e dello swahili.
Esteso circa 2.000 ettari, Maratane è un campo di accoglienza singolare se paragonato ad altre realtà simili nel mondo. Entrando sembra di trovarsi in un comune villaggio rurale africano, se non fosse per i tre cartelli prima dell’ingresso al lato della strada e alcune strutture delle Nazioni Unite. È un campo “aperto”, non ci sono barriere e i profughi sono liberi di uscire senza limitazioni potendo recarsi anche nella vicina Nampula. Lungo la via principale ci sono botteghe e qualche bar. Tutt’attorno centinaia di piccole abitazioni in paglia, fango e mattoni si estendono a perdita d’occhio.
Poi si arriva in un ampio slargo. Da una parte si trovano gli uffici dell’Instituto Nacional de Apoio aos Refugiados (INAR), l’ente statale con responsabilità sui rifugiati e sfollati interni in tutto il Paese, dall’altra la parrocchia dei Missionari Scalabriniani che gestiscono l’unico centro per bambini malnutriti. In un piccolo cortile alcune donne aspettano con i loro neonati all’ombra di un albero, mentre nell’ufficio la psicologa Giovanna Fakes ascolta assieme a suor Carmelina il racconto di Estelle, una giovane donna congolese con in braccio sua figlia Mika. “Nel Nord Kivu (nella RDC, ndr) lavoravo in una scuola materna e in un’organizzazione che aiutava le donne vittime di violenze sessuali da parte dei guerriglieri. Mio marito aveva un buon lavoro e con i nostri cinque figli facevamo una vita dignitosa –comincia Estelle-. Un giorno sono finita in un’imboscata dei ribelli mentre andavo a soccorrere delle ragazze violentate. Visto che aiutavo quelle donne, volevano ‘mostrarmi cosa si prova per farmi lavorare meglio’. Sono andati avanti a turno per giorni, fino a quando non sono riuscita a scappare. Mio marito ha usato tutti i soldi che avevamo per fuggire prima in Tanzania e poi lontano, fino a qui per non essere rintracciati”.
15 anni fa è stato istituito il campo di Maratane. La prima grossa ondata di rifugiati è arrivata in Mozambico tra il 1999 e il 2000. I primi campi profughi -aperti nel Sud del Paese- vennero chiusi a seguito delle pressioni del Sudafrica
Di storie tragiche simili a quella di Estelle se ne possono ascoltare a centinaia a Maratane. Moltissimi i giovani che hanno visto e subìto violenze e tante le donne che, incinte o con i loro figli, hanno intrapreso viaggi epici per arrivare fin qui per poi doversela cavare da sole. Il Mozambico è stato sempre una terra di passaggio per chi, in fuga dalla guerra, non ha potuto far altro che dirigersi verso il Sudafrica. Una grossa ondata di rifugiati era arrivata nel paese tra il 1999 e il 2000, causata dalle guerre del Congo e incrementata dalla guerra civile in Burundi. Inizialmente erano stati installati in fretta e furia due campi profughi a poca distanza dalla capitale Maputo nell’estremo Sud, ma il Sudafrica pretese lo spostamento dei profughi lontano dai suoi confini minacciando di espellere i mozambicani che lavoravano nelle sue miniere. Nel 2003 il governo di Maputo pensò dunque alle province povere e remote del Nord e individuò un posto isolato poco fuori Nampula dove si trovava un centro per la tubercolosi e un lebbrosario. Maratane nacque così.
Nonostante siano passati 15 anni e a più riprese si sia parlato di chiusura, il campo continua ad alimentarsi a ondate. Nel 2011 la siccità nel Corno d’Africa fece arrivare etiopi e somali e nel 2015 esplosero le proteste contro il regime di Nkurunziza in Burundi seguite da una violenta repressione che ha creato altri fuggiaschi. A ciò si aggiunge la delicata situazione della RDC che negli anni non è cambiata e potrebbe anzi peggiorare vista l’attuale incertezza politica in vista delle elezioni che dovrebbero svolgersi in dicembre dopo continui rinvii.
Lo spirito d’accoglienza e di apertura tipici del popolo mozambicano hanno fatto sì che qui a Maratane inizialmente si creassero le basi per un contesto positivo di assistenza e davvero unico nel suo genere, almeno sulla carta. Ma la mancanza di risorse di una nazione molto povera ha rallentato il processo di integrazione di migliaia di persone, improgionandole e in un limbo dal quale è difficile uscire. La povertà è ovunque nel campo, tragicamente simile a quella delle zone rurali del Mozambico, così come le condizioni sanitarie e i numerosi casi di malaria, colera e altre malattie come l’HIV e la tubercolosi. Il piccolo ospedale del campo non ha mezzi sufficienti per soddisfare la domanda di cure ed è sempre sovraffollato.
“Velocizare l’integrazione è la soluzione più fattibile. Maratane idealmente dovrebbe diventare un villaggio mozambicano” – James Lattimer
Data la permeabilità dei confini di Maratane, i profughi potrebbero integrarsi facilmente e iniziare attività nel Paese, ma resta un sogno quasi impossibile. Il Mozambico ha poco da offrire in termini di impiego e con pochi soldi e poca conoscenza del portoghese è difficile aprire un’attività autonoma. A ciò si aggiunge la normativa in vigore sui richiedenti asilo. Il Mozambico ha infatti sottoscritto le Convenzioni di Ginevra ma con delle riserve, per cui senza il riconoscimento dello status di rifugiato i profughi non possono lavorare legalmente né acquistare terra. Una grossa fetta di colpa è attribuibile all’INAR che con la sua lentezza e inefficienza rallenta o fa addirittura arenare il processo. “Sono arrivato qui dieci anni fa passando attraverso la Tanzania. Ho cercato lavoro sulla costa come pescatore, ma non è durata e sono rientrato nel campo. Siamo in molti qui a vivere la stessa situazione.”, afferma il 43enne congolese Mateso.
L’attesa senza fine non fa che alimentare dubbi sulla buona fede dell’INAR. Ne è convinto Jampiere a capo del Comité des Réfugiés di Maratane: “Ho il dubbio che ci vogliano ‘aiutare’ per ottenere più fondi di cui non vediamo l’ombra. Siamo in ostaggio, tenuti in cattività per interessi di altri”. A questi sospetti ha provato a rispondere James Lattimer, Vicedirettore del Programma alimentare mondiale (PAM) in Mozambico: “Non riscontro la tendenza dell’INAR a voler tenere il campo aperto a tutti i costi, ma è vero che esistono ‘ostacoli’ nell’attribuzione dello status di rifugiato. Velocizzare l’integrazione è la soluzione più fattibile. Maratane idealmente dovrebbe trasformarsi in un villaggio mozambicano da usare eventualmente come semplice reception center”. È chiaro che ciò non potrà che avvenire se non con un deciso intervento di Maputo. Oltre all’INAR anche il PAM e l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR) vengono aspramente criticate dai rifugiati per via della scarsa quantità e qualità del cibo distribuito. “Ci danno solo miglio, fagioli, sapone e 0,6 litri d’olio per persona al mese. Per il miglio devo pagare la macinatura con soldi che non ho, i fagioli non ci bastano”, reclama la rifugiata ruandese Fatuma. Questi problemi spesso sfociano in proteste durante la distribuzione, specie quando questa arriva con mesi di ritardo. Durante uno degli ultimi casi, avvenuto nel novembre 2017, le forze di sicurezza hanno dovuto lanciare gas lacrimogeni sulla folla che minacciava gli operatori Onu.
“Facciamo tutto il possibile con ciò che abbiamo per distribuire almeno il minimo previsto a livello internazionale (2.100 Kcal al giorno ndr) -afferma Abdellhai Ould El Bah, direttore dell’UNHCR a Nampula-. Ci sono moltissime crisi in corso in Africa e nel mondo. I bisogni sono immensi, ma i finanziamenti si riducono sempre di più. Quando il flusso degli aiuti alimentari si inceppa, si generano ritardi ai quali ovviamo come possiamo”. Stando agli ultimi dati disponibili, l’UNHCR ha richiesto poco più di 5 milioni e mezzo di dollari per il Mozambico nel 2017, ma ha ricevuto solo il 55% del budget. Luca Ventura, rappresentante del PAM a Nampula, ritiene che i progetti d’autosostentamento duraturo in fase di sviluppo condotti assieme a FAO, UNHCR e UN Habitat siano imprescindibili, ma che il progressivo inserimento dei profughi si potrà avere solo con un ulteriore strumento. “Il nostro vero obiettivo è quello di sostituire la distribuzione del cibo con una somma in denaro o un voucher del valore stabilito sulla base della situazione di vulnerabilità del richiedente, in modo da favorire indipendenza economica e libertà di scelta”. Uno studio del 2017 dell’istituito di ricerca indipendente britannico Overseas development institute (odi.org) ha confermato che il passaggio ai voucher o al denaro, determinerebbe un risparmio del 24% sulle spese (circa 300 milioni di dollari l’anno su una spesa pari a 1,3 milioni di dollari nel 2016) favorendo al tempo stesso integrazione e autonomia.
Il caso di Maratane rappresenta l’esempio di un fenomeno in preoccupante espansione in Africa e nel mondo. Le persone in fuga aumentano a causa di conflitti e catastrofi naturali legate al cambiamento climatico. Con loro, crescono anche i campi profughi, dove le precarie condizioni di vita si protraggono per tempi ogni volta più lunghi e diventano sempre più difficili da gestire vista la mancanza di fondi. Quando le risorse economiche mancano si finisce col dare la precedenza alle crisi attuali trascurando quelle “vecchie” che restano irrisolte. Tanti giovani come Juma e i suoi amici continueranno a crescere in un limbo d’incertezze se non si agirà per tempo.
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