Esteri / Reportage
“Le persone sanno già che devono avere paura”. Deportazioni e uragani nella Florida di Trump

Nello Stato Usa tra i più colpiti dalle conseguenze degli eventi estremi milioni di persone non possono accedere a rifugi e finanziamenti per il rischio di essere arrestate e deportate. Un effetto della politica repressiva dell’appena insediata amministrazione, che ha anche sospeso l’ammissione “per parola” dei rifugiati. Una stretta ulteriore per una fascia larghissima di popolazione. Il racconto a sei mesi dal passaggio dell’uragano Helene
Ramon Peres, agricoltore, e sua moglie Teresa Hernandez vivono in un paesino della provincia profonda della Florida centrale insieme ai loro tre figli. I nomi sono di fantasia ma la loro casa esiste davvero ed è, oggi, poco più che una baracca di lamiera e legno di recupero: dopo il passaggio dell’uragano Helene, lo scorso ottobre, la roulotte dove vivevano è stata ridotta a un ammasso di ferri rotti e ormai arrugginiti.
La si può vedere ancora, come una carcassa di un animale in decomposizione, subito di fianco al circolo di cenere dove la famiglia ha bruciato i propri averi rovinati dagli eventi atmosferici estremi dell’ultima stagione.
“È dura quando si rimane senza casa e senza elettricità, con i propri figli a carico -dice Ramon scuotendo la testa-. Qualcuno ci ha dato una mano, un vicino ci ha permesso di collegarci alla sua rete elettrica, ma per il resto siamo stati abbandonati. Ci sentiamo soli, e rimanere da soli fa paura”. Oggi, quasi sei mesi dopo l’uragano, la famiglia Peres ha anche un altro problema oltre a questa paura, un problema che rende la vita ancora più precaria: chiunque di loro potrebbe essere arrestato e deportato in ogni momento, dato che nessuno possiede documenti validi al fine della permanenza sul suolo statunitense.
La storia della famiglia di Ramon Peres e Teresa Hernandez è simile a quella di altre migliaia di migranti senza documenti che negli Stati Uniti si trovano oggi stretti fra gli effetti disastrosi del cambiamento climatico e la politica repressiva introdotta dalla nuova amministrazione di Donald Trump.
Gli uragani della scorsa stagione, tra luglio e novembre 2024, hanno colpito in particolar modo i migranti che risiedevano in Florida, che da sola conta quasi cinque milioni di immigrati su una popolazione locale di meno di 24 milioni di abitanti, ma anche chi vive in Louisiana, Georgia e Carolina del Sud e del Nord. Stiamo parlando di centinaia di migliaia di persone -solo i messicani in Florida sono più di 250mila- che spesso vivono in roulotte, case mobili, quando non in veri e propri alloggi di fortuna.
I quartieri con questo tipo di soluzione abitativa, abbastanza comuni negli Stati Uniti visto che spesso le case mobili sono regolarizzate con tanto di numero civico e cassetta della posta, sono stati i primi a ricevere l’ordine di evacuazione. Nonostante fossero in serio pericolo, molti migranti si sono opposti all’idea di raggiungere i rifugi gestiti dalla protezione civile.
“C’è resistenza ad andare in un rifugio -ha dichiarato Juan Sabines Guerrero, console generale del Messico a Orlando- perché molti temono di venire identificati come irregolari. In questo tipo di occasioni, però, non c’è tempo per pensarci, bisogna agire subito”.
Ma anche per chi ha raggiunto i rifugi il passaggio dell’uragano ha significato la distruzione delle proprie case ed effetti personali, e l’impossibilità -a causa del proprio status di irregolari- di accedere ai fondi per la ricostruzione.
A questa situazione complicata per i migranti dovuta al cambiamento climatico si somma la raffica di ordini esecutivi firmata da Trump, sin dal giorno del proprio insediamento, lo scorso 20 gennaio. Già durante la campagna elettorale aveva promesso una politica di deportazioni forzate, a pieno ritmo, di almeno 15-20 milioni di persone. Una delle prime mosse, oltre alla revoca dei visti a centinaia di studenti internazionali, è stata la sospensione dell’istituto dell’ammissione sulla parola: dal 1952 chi entra negli Stati Uniti da Paesi in cui i diritti umani non vengono rispettati, può dichiarare di essere perseguitato per motivi politici, religiosi o dalle gang criminali del proprio Paese.
La persona in questione viene ammessa nel territorio statunitense e il suo status viene sottoposto a verifica, operazione che può durare alcuni anni. In questo periodo il migrante non è né “regolare”, perché non ha documenti che giustifichino la permanenza nel Paese, né “irregolare”, perché il suo status non è stato ancora definito. Si trova, in altre parole, in una situazione di limbo giuridico, ed è quindi sottoposto all’arbitrio dell’autorità. Ad oggi, oltre un milione e mezzo di persone si sono viste revocare il proprio status di rifugiati “sulla parola”, e sono state invitate ad andarsene entro fine aprile, in caso contrario potrebbero essere arrestati e deportati.
Come se non bastasse, a riassumere la politica del governo federale in materia di immigrazione ci ha pensato in primavera Tom Homan, lo “zar dei confini” della nuova amministrazione che si trova a capo del programma delle deportazioni: “Ci sono centinaia di migliaia di stranieri illegali con precedenti penali che camminano per le strade. Dobbiamo trovarli tutti e sbatterli fuori da questo Paese”. L’equazione proposta da Homan tra immigrati “irregolari” e criminali è piuttosto diffusa ma la realtà è molto più complicata di così.
Innanzitutto, gli immigrati irregolari non sono un corpo separato rispetto al resto della società: svolgono spesso lavori usuranti nei cantieri e nella ristorazione, sono fra i settori di popolazione più sottopagati e ricattabili dai datori di lavoro, e spesso sono parte di comunità solidali e integrate, come dimostra l’enorme partecipazione degli immigrati irregolari all’opera di ricostruzione negli Stati colpiti da fenomeni atmosferici estremi. Molti dei migranti che sono stati deportati (circa mille persone il solo 26 gennaio scorso) avevano sì commesso dei reati ma si trattava per lo più di infrazioni minori del codice della strada. Alcuni, poi, non hanno commesso alcun reato: Kilmar Abrego Garcia, arrestato davanti a suo figlio, è stato deportato in El Salvador un mese fa, dove è detenuto in condizioni disumane nelle carceri del presidente Bukele. Anche se perfino i giudici statunitensi hanno riconosciuto l’errore in questo arresto, la Casa Bianca si è rifiutata per un certo tempo di procedere a un rimpatrio
Quello di Abrego Garcia non è l’unico caso, e anche per questo negli Stati Uniti migliaia di persone vivono ormai nella paura di essere arrestate e deportate. “Ho visto un mio vicino di casa che camminava per strada. È stato arrestato senza che gli fosse mostrato un mandato. Il tutto è successo in due minuti”, ha raccontato Renata Bozzetto, vicedirettrice della Florida immigrant coalition (Flic), una coalizione di oltre 65 organizzazioni che in Florida si batte per i diritti dei migranti. “Non esiste, dopo aver visto questo, che io vada nella mia comunità e dica di non preoccuparsi, che la polizia non verrà ad arrestare anche loro. Circolano dei video su questi arresti, le persone sanno già perfettamente che devono avere paura. E non devono avere paura perché starebbero commettendo un qualche crimine, no, devono averla perché esiste un intero apparato che sta permettendo di arrestare persone in base alla loro appartenenza etnica”.
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