Diritti / Opinioni
Quando i fatti non contano
La Cassazione assolve l’ex Capo della Polizia De Gennaro dall’accusa di falsa testimonianza.
Le motivazioni arrivano a sei mesi dalla sentenza. E lasciano molte perplessità _ _ _
Dunque alla Cassazione non interessa spiegare perché mai alla vigilia di una serie importante di testimonianze nel processo Diaz, quando l’accusa affrontava il tema finale della ricostruzione della catena di comando dell’operazione e il ruolo dei principali imputati fra i più stretti collaboratori del prefetto Gianni De Gennaro, quest’ultimo, citato come testimone, abbia sentito la necessità di colloquiare con altro testimone, l’ex questore di Genova Francesco Colucci, per concordare una versione comune, richiedendogli di appianare un contrasto tra le rispettive precedenti deposizioni già rese in sede parlamentare e al pm. Il contrasto riguardava la decisione, di cui ciascuno aveva attribuito all’altro la responsabilità, di inviare il portavoce ufficiale della polizia, Roberto Sgalla, alla scuola Diaz.
Per questo, De Gennaro è stato accusato di induzione alla falsa testimonianza.
Ancora, la Cassazione pudicamente tace sulla ragione per cui il prefetto De Gennaro abbia mentito -secondo entrambi i giudici del merito- quando ha negato di aver consegnato in quel colloquio, con evidente implicazione, la copia delle sue dichiarazioni al futuro teste. Nelle 36 pagine della sentenza pubblicata a maggio (sei mesi dopo la sentenza), il lettore non potrà tuttavia apprendere molto della vicenda perché essa semplicemente scompare, assorbita dalla considerazione che la limitata circostanza oggetto della testimonianza sarebbe irrilevante. Benché anche in primo grado la formula di assoluzione per De Gennaro fosse stata d’insufficienza di prove e non certo su questo punto, la Cassazione, pur dovendosi pronunciare soltanto in tema di diritto sulla condanna in appello, scopre addirittura un deserto probatorio a carico dell’imputato eccellente. I giudici non si sarebbero accorti che stavano discutendo a vuoto. In altri termini: il teste può mentire, ma non commette reato se ciò che falsamente dice è insignificante e quindi non può condizionare la decisione del giudice nel processo in cui è resa. Esiste una significativa consonanza tra i principi espressi dalla giurisprudenza di Cassazione e quella formatasi in altri ordinamenti in cui le fattispecie penali in tema di dichiarazioni false prevedono espressamente come elemento essenziale del reato quello della rilevanza (il termine usato per definire il concetto è quello di “materiality” cioè di consistenza, sostanza).
Rilevanza non significa tuttavia importanza o peso probatorio; basta che il fatto possa in astratto essere considerato dal giudice, anche se in concreto non ne ha tenuto conto o non vi ha creduto, ovvero che altre prove lo rendano superfluo. La nostra Cassazione talora aveva in maniera anche più sbrigativa affermato che fosse sufficiente che la circostanza non dovesse essere “del tutto estranea” al tema del processo. Poiché valutare la rilevanza nel senso sopra indicato implica una concreta analisi del fatto, di norma la Cassazione, che è giudice del diritto, potendo controllare solo la congruità della motivazione del giudice di merito sul punto, qualora non la ritenga adeguata, si limita ad annullare la sentenza rinviando a un nuovo giudice per un più esauriente esame. Così non è stato in questo caso, ritenuto di tale assoluta evidenza, da non meritare altra e diversa valutazione. Considerata la complessità del processo Diaz e delle problematiche sollevate, le certezze della Cassazione appaiono, su aspetti che solo apparentemente sono di diritto, un atto di forza, più che di autorità persuasiva. Dove il giudice del fatto, la giuria, è addirittura diverso dal giudice del diritto, si è posto il problema di chi dovesse accertare la rilevanza della circostanza nella falsa testimonianza. Ebbene, nel 1995 la Corte Suprema degli Usa, ribaltando una precedente prassi, ha stabilito che questo tema è una questione di fatto e non di diritto, come tale di competenza esclusiva della giuria. Si è evitata quindi ogni incursione del giudice nel regno del fatto.
Sorprendentemente, in quest’occasione italiana, la Corte non ha avuto alcuna remora a immergersi completamente nel fatto, valutando e addirittura criticando anche le deposizioni di taluni testimoni.
Dietro una prosa paludata che ricorda la Cassazione d’antan, si compiono scelte concrete sul piano del merito che sono talora improprie anticipazioni su nodi cruciali del processo principale, che non era ancora concluso. Scelte non solo opinabili, ma concretamente opinate. L’esempio lo fornisce la sentenza della Corte d’Appello nel processo Diaz (non esaminata dalla Cassazione), che riconosce apertamente l’importanza “nella valutazione complessiva dei fatti” della “circostanza, emersa chiaramente […] secondo la quale l’origine di tutta la vicenda è individuabile nell’esplicita richiesta da parte del Capo della Polizia di riscattare l’immagine del corpo e di procedere a tal fine ad arresti, richiesta concretamente rafforzata dall’invio da Roma a Genova di alte personalità di sua fiducia ai vertici della Polizia che di fatto hanno scalzato i funzionari genovesi dalla gestione dell’ordine pubblico”. In questa prospettiva, che è stata negata e contrastata dagli imputati condannati, la “questione Sgalla” diviene addirittura centrale per individuare la catena di comando effettiva per l’operazione, se cioè fosse quella con all’apice il Questore, come avrebbe dovuto essere, ovvero i funzionari romani e quindi direttamente il Capo. Lo scontro tra le deposizioni non era dunque su una banale questione, come avevano da subito colto i membri della commissione parlamentare. Al processo, il contrasto doveva essere eliminato a favore della linea che sminuiva la pressione e la predominanza dei funzionari romani sul questore.
La Cassazione non s’avvede di ampliare la contraddizione in cui era incorso lo stesso prefetto De Gennaro, che aveva ammesso il colloquio con l’altro teste al fine di “trovare una consonanza per l’accertamento della verità”, in ciò riconoscendo valore al cambiamento di versione. Ora si apprende che lo sforzo è inutile, perché la circostanza che stava a cuore al prefetto è irrilevante per quel nobile fine.
Non è questa ovviamente la sede per osservazioni più tecniche e approfondite, ma limitandosi ancora agli aspetti percepibili dal grande pubblico, colpisce ad esempio l’assoluta leggerezza, che diviene calcolo, con cui si rinuncia a stigmatizzare la condotta di testimoni che si accordano fra loro e con gli imputati contro cui dovrebbero testimoniare.
La Cassazione non parla per sé, limitandosi a citare i giudici nella considerazione della “inopportunità” di tali comportamenti. Scompare la durezza dello scontro anche istituzionale, scompare la necessità del preservare anche da quell’alto consesso la genuinità della prova e la serenità del giudice chiamato a decidere un processo fra i più complessi della storia recente (basti pensare alla laboriosità del giudizio, che ha meritato due relatori e un numero di udienze straordinario).
Provate a immaginare un datore di lavoro che chiama il suo subordinato che sarà testimone in un processo per infortunio sul lavoro e gli chiede di allinearsi alla sua versione, sapendo di avere detto cosa diversa, o testimoni in un processo a carico di sfruttatori e spacciatori che parlano con gli imputati che spiegano loro come sono andate le cose. E immaginate lo stesso aplomb della Suprema Corte. Un fatto clamoroso, qual è quello di un teste che smentisce ciò che aveva sempre affermato, diviene per la Corte un “paradosso accusatorio”, censurato laddove sosterrebbe che “la revisione dei propri ricordi da parte di un teste […] equivale a ritrattazione e la ritrattazione equivale alla prova della falsa testimonianza”. Sarà anche così, ma il paradosso è accolto dai più pragmatici giudici inglesi che per provare lo spergiuro, ritengono che se non è sufficiente la semplice dichiarazione contrastante resa dal teste, che prova soltanto che una delle due versioni è falsa, considerano invece ben sufficiente la ripetizione della dichiarazione contrastante in diverse occasioni a diverse persone. A più generali riflessioni conduce infine la singolare analogia tra il processo a De Gennaro e il processo che coinvolse nello stesso anno 2007 il suo omologo, Lewis “Scooter” Libby, ex capo di gabinetto del vicepresidente degli Stati Uniti, Dick Cheney, e addetto alla sicurezza nazionale, accusato di falsa testimonianza per aver mentito davanti a un gran giurì nell’ambito dell’inchiesta legata allo scandalo Nigergate, nel quale pare i nostri servizi segreti ebbero una parte. Libby era accusato di aver falsamente negato di aver svelato alla stampa, e per conto di chi, l’identità di un agente della Cia. Tra le sue difese al processo figurarono sia la labilità dei ricordi sia l’irrilevanza della circostanza. Fu dichiarato colpevole e condannato a due anni di reclusione. Appena rinviato a giudizio, fu rimosso da ogni carica e, avvocato, fu sospeso dall’ordine. Il presidente Bush gli concesse infine la grazia. I confini fra giudiziario e politica sono molto chiari: nessuna commistione, anche se l’affondo politico esplicito assicura il risultato d’impunità. Qui da noi resta l’impressione che la politica, in apparente ossequio al giudiziario, deleghi gran parte delle sue responsabilità. Fin dall’inizio della vicenda, infatti, tutti aspettavano la giustizia in Cassazione, promuovendo l’inarrestabile carriera di onori del prefetto e ignorando le lunghe e alterne vicende processuali. Avevano visto bene. Che siano tutti grandi giuristi come nella suprema Corte? —
* Enrico Zucca, sostituto procuratore generale a Genova