Diritti / Approfondimento
Viaggio tra i presìdi sanitari che garantiscono l’accesso alle cure
Gli 11 centri del “Progetto Italia” di Emergency hanno offerto 315mila prestazioni. Molte le realtà del privato sociale che assicurano il rispetto dell’articolo 32 della Costituzione offrendo così “cure gratuite agli indigenti”
Sono dodici le lingue in cui è tradotto il cartello appeso fuori dal poliambulatorio Emergency di Marghera (Ve), anche se qui un paziente su cinque è italiano. “Per molte persone che vivono in una delle Regioni più ricche d’Italia, l’accesso ai diritti è diventato sempre più compromesso a causa della crisi economica, sociale e istituzionale”, spiegava l’associazione nel 2010, all’inaugurazione della sede veneziana in una palazzina presa in affitto dal Comune. Non solo “l’Italia ripudia la guerra”, come da sempre ricorda Emergency richiamando l’attenzione sull’articolo 11 della Costituzione. Ma tutela anche “la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti” (articolo 32). Un diritto spesso disatteso, che Emergency garantisce attraverso il “Programma Italia”, nato nel 2006 con l’apertura di un primo ambulatorio a Palermo. Oggi sono 11 i progetti di Emergency in Italia che hanno garantito finora 315mila prestazioni gratuite.
Il poliambulatorio di Marghera è aperto dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 18. A tutte le ore, entrando si è accolti da uno dei quattro mediatori culturali che lavorano qui: una ragazza italo-siriana, una serba, un’italiana e un afgano. “Sono il pilastro della nostra struttura”, dice la coordinatrice, Marta Carraro. “Si mettono in ascolto di chi arriva, cercando di capire i motivi degli ingressi e fanno una prima registrazione dei pazienti per poter rispondere ai loro bisogni. In molti casi il colloquio con il mediatore può essere già risolutivo”. Spesso, infatti, si tratta di indirizzare le persone verso il giusto servizio, al quale non sanno di aver diritto di accedere.
Il 50% dei pazienti di Emergency a Marghera sono migranti extra europei che non hanno la tessera sanitaria perché privi di un permesso di soggiorno. “In molti casi si tratta di persone che vivono qui da anni, ma hanno perso il lavoro diventando irregolari”. Poi ci sono i richiedenti asilo appena arrivati, che per un breve periodo non possono iscriversi al Sistema sanitario nazionale. Un altro 20% dei pazienti sono cittadini comunitari privi dei requisiti economici per avere la residenza, necessaria per iscriversi al servizio sanitario.
“Da quando lavoro in questo ambulatorio mi ha colpito il numero dei senzatetto”, racconta il medico del poliambulatorio, il neurologo Emilio Alari. I senzatetto italiani stanno in quella che Marta definisce “zona grigia”: non possono avere accesso alle cure poiché privi di residenza e -a differenza degli stranieri o dei comunitari- per loro non è previsto alcun codice a garanzia del diritto alle “cure urgenti, essenziali e continuative”. “Siamo a Venezia nel 2018, ma è come se fossimo in guerra. La differenza è che questa è una guerra a bassa intensità, perciò tendiamo a dimenticarla o ignorarla. Ma il suo impatto sociale è altissimo”. Gli italiani sono, con i romeni, la prima nazionalità (18%, che sale al 30% per le cure odontoiatriche) tra i 2mila pazienti del poliambulatorio del 2017, per il 67% uomini. I servizi -oltre alla medicina di base, si fanno visite pediatriche, odontoiatriche e ottiche e c’è un punto di ascolto psicologico- sono garantiti da uno staff di nove dipendenti e un centinaio di volontari.
“Punto cardine del progetto è la complementarietà del nostro intervento con il Sistema sanitario nazionale: ci concentriamo infatti sui bisogni disattesi, evitando di replicare servizi che sono già garantiti da altre strutture”. Un aspetto condiviso dalle numerose realtà che in Italia si occupano di accesso alle cure per chi resta ai margini, insieme alla volontà di fare rete sul territorio. Fuori dalla palazzina di Marghera, per esempio, c’è una sinergia con i servizi, le associazioni del territorio e le comunità di migranti, in un confronto costante per andare a “incidere sui determinanti sociali della salute”, sottolinea Marta. “Il nostro obiettivo è una trasformazione delle condizioni di vita delle persone, perché solo così il loro benessere potrà essere duraturo e garantito anche se il poliambulatorio dovesse chiudere”.
Una delle principali difficoltà da affrontare nel costruire “salute senza esclusione” -come dice la Società italiana di medicina delle migrazioni (Simm)- è il coinvolgimento della popolazione migrante. “Queste persone sono ancora troppo impegnate a costruirsi una vita dignitosa e non è una loro priorità partecipare a realtà come la nostra”, osserva Maurizio Marceca, presidente della Simm e docente di Sanità pubblica alla Sapienza di Roma. “Ma costruire le condizioni per cui i migranti possano diventare protagonisti delle scelte sulla loro salute è uno dei nostri obiettivi”. La Simm -che ha circa 400 soci- è nata a Roma nel 1990 da alcune realtà italiane impegnate nel garantire il diritto all’assistenza sanitaria ai migranti, per promuovere e coordinare le attività. La società coinvolge una pluralità di professionisti e affronta diversi aspetti della salute nel fenomeno migratorio, “a partire dall’idea che salute e dignità siano concetti inscindibili”. Per fare questo, la Simm fa ricerca sempre “con un’attenzione alla storia della migrazione delle singole persone, per capirne i fattori di rischio” e formazione ai professionisti del settore “perché cresca la consapevolezza dello stretto legame tra salute, cultura e diritti”. “Quindi ci impegniamo a essere incisivi perché il mondo della politica possa dare delle risposte efficaci ai problemi che identifichiamo”. In 14 Regioni e una Provincia autonoma sono attive le unità territoriali della Simm, i “Gruppi locali immigrazione salute” (Gris).
Il primo Gris -che oggi ha 60 gruppi aderenti- è nato nel 1995 in Lazio, anche su spinta della Caritas di Roma. Il poliambulatorio di via Marsala è attivo dal 1983 nella tutela sanitaria dei più deboli, in particolare migranti, rom e senza dimora. Da allora ha assistito gratuitamente quasi 120mila persone (circa 5.500 all’anno) di 100 diversi Paesi, per 600mila prestazioni. Nel 2017 ha avuto 2.200 nuovi pazienti, garantendo i servizi grazie al lavoro di cinque dipendenti e 350 volontari. Dal 2005 l’ambulatorio ha avviato il progetto “Ferite invisibili”, per il sostegno psicoterapeutico alle vittime di violenza e tortura, prendendo in carico da allora circa 350 pazienti, per l’80% uomini, con oltre 5mila sedute terapeutiche.
“Siamo a Venezia nel 2018, ma è come se fossimo in guerra. La differenza è che questa è una guerra a bassa intensità” – Marta Carraro
È un progetto simile a quello del centro “Naga Har” a Milano: dal 2001 un luogo d’ascolto e accoglienza per i richiedenti asilo, i rifugiati e le vittime della tortura. A loro Naga -un’associazione di 300 volontari e quattro dipendenti, attiva da 30 anni a Milano – offre supporto nella procedura di riconoscimento dello status di rifugiato e cura le ferite delle torture attraverso attività socializzanti. “La salute è lo strumento attraverso il quale ci occupiamo dei diritti delle persone”, spiega Fabrizio Signorelli, chirurgo e direttore sanitario Naga. Dal 1987, l’associazione offre cure gratuite a 50 pazienti al giorno, privi di permesso di soggiorno. Infatti, “pur esistendo una legge che dovrebbe garantire l’assistenza sanitaria anche a chi è irregolare, tramite l’erogazione del codice ‘Straniero temporaneamente presente’ (Stp), in molti casi questa non è applicata”, dice Signorelli. In una ricerca del 2015 sull’accesso alle cure per gli stranieri irregolari negli ospedali milanesi, “Curare (non) è permesso”, Naga ha raccolto “155 casi di persone, con un’età media di 43 anni e in prevalenza uomini (76%), che non sono state assistite secondo quanto previsto dalla legge”. Nel 20% dei casi erano cittadini comunitari.
Per garantire il diritto alla salute, 17 mesi fa anche nell’ex Opg occupato “Je so’ pazzo” di Napoli è stato inaugurato uno sportello medico popolare. Un progetto avviato da un lavoro d’inchiesta svolta nel quartiere Materdei, dalla quale è emersa la necessità di aprire un luogo per la “prevenzione garantita, giusta e gratuita”. “Grazie a 15 medici volontari abbiamo avviato il primo sportello di medicina generale”, racconta Novella Formisani, medico e attivista dell’ex Opg. In pochi mesi gli sportelli sono diventati 15 e 40 i volontari che si alternano per garantire l’apertura quattro giorni alla settimana. In un anno sono state fatte più di 1.500 visite, la metà a cittadini italiani. Il progetto è sostenuto dal basso grazie alle donazioni: così è stata creata una “farmacia popolare”, si è ristrutturato il locale per ospitare lo sportello ginecologico e sono arrivati i primi due ecografi. Una strumentazione utile alle campagne di prevenzione sanitaria: “Pensiamo che il tema della prevenzione sia fondamentale e per questo organizziamo delle giornate gratuite di sensibilizzazione e screening”. In quest’ottica, accanto allo sportello medico c’è una palestra popolare, un doposcuola, una scuola di italiano per migranti e un teatro accessibile a tutti. Perché a salute è ‘a primma cosa.
© riproduzione riservata