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Diritti / Attualità

Prescrizione: in Italia il dibattito ha perso contatto con la realtà

© Simona Granati / Buneavistaphoto

Fissare un termine oltre il quale il reato non sia più perseguibile è giusto, concedere impunità no. Il confronto estremo nel nostro Paese evita la complessità del tema. L’analisi del sostituto procuratore, Enrico Zucca

Tratto da Altreconomia 235 — Marzo 2021

Con il tempo i testimoni del fatto non ricordano bene o non sono più individuabili; la pace sociale minacciata dal reato si ricompone, se lo Stato non è ancora riuscito a perseguire il colpevole dimostra di non averne più interesse. La pena colpisce una persona che è diversa, forse già reinserita, non è giusta la tardiva punizione. Il cittadino poi non può vivere sotto la minaccia perpetua dell’azione dello Stato. Queste sono le ottime ragioni della prescrizione, un termine massimo oltre il quale il reato non è più perseguibile. È garanzia per l’individuo, che va bilanciata con l’esigenza dello Stato a non concedere impunità. Senza prescrizione, però, non c’è la barbarie. In Inghilterra pochissimi reati (e di minore gravità) sono soggetti a prescrizione: prevale da secoli la teoria che il tempo non ostacola il potere sovrano (nullum tempus occurrit regi).

Ma anche se quasi ovunque la prescrizione è invece diventata la regola, alcuni reati vi sono sottratti, in Italia quelli puniti con l’ergastolo: un segno che la gravità del reato non solo determina tempi più lunghi di prescrizione, in genere correlati alla pena prevista, ma addirittura li abolisce. I crimini contro l’umanità sono a livello internazionale considerati imprescrittibili, così dovrebbe essere la tortura (cosa negata dal nostro legislatore). Alcuni reati poi sono difficili da scoprire (cosiddetti concealed crimes), ma la prescrizione decorre lo stesso.

In Italia la Cassazione decide 50.000 ricorsi ogni anno, il 60% dei quali è dichiarato inammissibile. È normale impugnare anche solo per ritardare l’esecuzione di una sentenza

È però quasi universalmente previsto (perché vengono meno quelle ottime ragioni che la fondano) che la prescrizione non serve più quando il processo inizia o c’è una sentenza. Quest’ovvietà, un tempo condivisa da molti, poi contestata e causa di crisi governativa, era recepita dalla riforma “Bonafede”.
Purtroppo il problema inizia dove finisce il problema della prescrizione. Viene infatti in gioco il principio costituzionale della durata ragionevole del processo. Senza più interesse a evitare la prescrizione, s’immagina che giudici e procuratori non si affannino più di tanto; all’opposto che cesserebbero le manovre dilatorie per mantenere in piedi un processo. Nessun dato supporta l’una o l’altra tesi; poiché la disciplina della prescrizione non è mai retroattiva, neppure gli effetti della riforma “Orlando” del 2017 che allungava i termini nei diversi gradi di giudizio sono ancora calcolabili; per la riforma “Bonafede” si vedrebbero non prima del 2028. La nuova disciplina era peraltro giustamente collegata a un’organica riforma del processo penale, che non c’è stata. Un dato è significativo: mentre in Italia la percentuale di processi definiti in via negoziale, con il cosiddetto patteggiamento o con riti semplificati, è pari al 4-5%, negli altri Paesi si raggiungono percentuali dal 60 al 90% e oltre (questo a dispetto della narrazione che qui le Procure dettano legge). Evidentemente, se si rinuncia al giudizio e si ammette la responsabilità all’estero e non in Italia, vuol dire che qui non conviene. Meglio affrontare il giudizio fino in Cassazione con un percorso che dura anni e può essere terminato dalla prescrizione.

La Cassazione decide 50.000 ricorsi ogni anno, il 60% dei quali è dichiarato inammissibile (è normale impugnare anche solo per ritardare l’esecuzione di una sentenza, si impugnano anche i patteggiamenti), numeri che non sono neppure immaginabili per le Corti supreme negli altri Paesi. In tutta la Francia circa 40 avvocati nella sola Parigi sono abilitati al ricorso. Da noi se si appella una condanna non si rischia una pena maggiore (cosiddetto divieto di reformatio in peius), un principio sconosciuto quasi ovunque. È chiaro che i tempi si allungano se si percorrono sempre e quasi da tutti più gradi di giudizio. Il guaio è l’azione penale obbligatoria, s’è allora detto, ma c’è anche in Germania e nessuno si lamenta. S’è pensato, più propriamente, di contenere i tempi non con la prescrizione del reato, ma dell’azione, fissando termini al processo.

Non è ragionevole, come accade e si voleva evitare, che possano prescriversi reati se lo Stato ha impiegato il massimo impegno o più giudici hanno motivato sentenze

Nei sistemi anglosassoni si parla di “abuso del processo”, se questo è instaurato a distanza di troppo tempo, ma spetta al giudice stabilire se il ritardo dello Stato è colpevole e se vi è un reale pregiudizio per la difesa. Negli Stati Uniti d’America sono fissati termini rigorosi (peraltro di prassi facilmente sospesi o interrotti) per iniziare celermente il processo dopo l’incriminazione (speedy trial), termini così stretti cui la difesa spesso rinuncia, ma se si superano, è ancora il giudice che valuta il pregiudizio reale, che l’imputato talora deve dimostrare. Nessun ostacolo però per lo Stato, se il processo si allunga nelle fasi delle impugnazioni (stiamo parlando di un sistema dove si celebra il processo nel 2% dei casi e dove il giudizio di appello nel merito è praticamente sconosciuto).

La ministra della Giustizia, Marta Cartabia, già presidente della Corte costituzionale, prima donna a occupare la carica © www.cortecostituzionale.it

Occorre poi considerare che non possono stare negli stessi tempi i processi per reati ad accertamento complesso e con più imputati e quelli più semplici. Non è infatti ragionevole, come accade e si voleva evitare, che possano prescriversi reati se lo Stato ha impiegato il massimo impegno e più giudici hanno già motivato corpose sentenze per garanzia verso gli imputati (si fa prima nei sistemi dove le giurie emettono verdetti immotivati o dove l’appello è sottoposto a limiti). Il termine “ragionevole” per la durata del processo è, non a caso, un termine elastico che mal si addice a termini perentori. Oltre un limite può scattare una presunzione ma, come accade in altri sistemi, può essere superata dalla particolarità del caso.

La lunghezza anomala può essere compensata eventualmente con una riduzione di pena (così in Germania). Pensiamo a ciò che dice la Corte europea dei diritti umani dei processi per i fatti della Diaz o Bolzaneto (G8 di Genova 2001). Sono tanti 11 anni per arrivare a sentenza definitiva, quindi per consentire il dispiegarsi di ogni garanzia per un processo equo, ma è una durata ragionevole, considerato l’impegno di pubblici ministeri e giudici; sono i reati che non dovevano prescriversi. Proviamo a pensarla così : anche la prescrizione e non il contrario può urtare con la durata ragionevole del processo e l’esigenza della giustizia. Ora però il dibattito ha perso contatto con la realtà, riducendosi a posizioni estreme opposte, tra giustizialismo e garantismo, nella declinazione dei termini che è sempre più solo italiana. La questione è invece tecnicamente complessa e non può essere risolta se non concretamente tenendo conto dell’equilibrio globale di ogni sistema.

Enrico Zucca è sostituto procuratore generale di Genova. È stato pubblico ministero del processo per le torture alla scuola Diaz durante il G8 dell’estate 2001

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