Diritti / Opinioni
Porsi il problema del linguaggio che usiamo
Da qualche tempo è in corso una campagna contro il “politicamente corretto”. Ma siamo davvero sicuri che “non si può più dire nulla”? La rubrica di Lorenzo Guadagnucci
È in corso da qualche tempo una campagna politica e mediatica secondo la quale si starebbe affermando una “dittatura del politicamente corretto”. Ci sarebbero cioè poteri più o meno individuabili -gruppi di pressione, intellettuali, altre entità solitamente reputate “di sinistra”- intenzionate a imporre vincoli linguistici e ideologici lesivi della libertà di opinione e di informazione.
Questa “dittatura” si manifesterebbe in molte forme: per esempio attraverso regole lessicali e grammaticali sull’uso del femminile; imponendo “quote” etniche o di genere in questo o quel consesso; attuando un revisionismo storico a tutto campo, mettendo cioè in discussione ora monumenti e personaggi celebri, ora film e romanzi accusati di sessismo, colonialismo e così via.
È una campagna che rimbalza fra le due sponde dell’Atlantico e ha come sottotesto la contestazione di movimenti come Black Lives Matter, Non una di meno e #MeToo che hanno saputo mettere in discussione molti totem linguistici, culturali e politici ereditati dal passato. Nei suoi momenti più chiassosi è una campagna piuttosto confusa, specie quando indica un semplice post, un’unica osservazione (a volte anche travisata) o un caso estremo e finanche ridicolo come una vessazione erga omnes, un impedimento a parlare e a dire le cose come stanno. “Ora non si può più dire nulla” è la denuncia più frequente ma anche la meno argomentata: chi lo impedisce? In che modo? A chi?
Quando si parla -polemicamente- di “politicamente corretto” si contestano dunque fenomeni diversi. Uno è certamente l’attenzione al lessico corrente, ma non è meno importante -per chi denuncia la presunta dittatura- il fatto che i nuovi movimenti sociali stanno rivendicando il diritto a discutere e ribaltare canoni storici consolidati.
Si può discutere se sia necessario arrivare ad abbattere un monumento a Cristoforo Colombo, ma davvero è un sopruso, un atto illiberale, ipotizzare che la “scoperta dell’America” sia stata in realtà -come recita il titolo di un bellissimo libro di Eduardo Galeano- “La conquista che non scoprì l’America”? Dopotutto quando si erge un monumento a qualcuno si compie un atto pubblico, un gesto politico, e non c’è da sorprendersi se ciò genera critica e opposizione, cioè discussione e azione, fino al caso estremo (certo opinabile, ma nell’ordine delle cose) dell’imbrattamento o dell’abbattimento.
1. I ministri di pelle nera nella storia della Repubblica italiana. Era Cécile Kyenge (tra 2013 e 2014), italiana nata nella Repubblica Democratica del Congo. Fu definita “orango” dal vicepresidente del Senato Roberto Calderoli
Un altro fronte aperto, vissuto con enorme fastidio, riguarda le politiche attive -in sostanza le quote- introdotte per avvicinarsi nelle varie istituzioni alla parità di genere e al rispetto del pluralismo etnico-culturale (chiamiamo così il fatto che ogni popolazione “nazionale” include ormai persone delle più diverse origini). Si denuncia in questo caso la forzatura che finirebbe per confliggere con il criterio del merito e c’è del vero in questa valutazione (ma sulla oggettività e neutralità del merito ci sarebbe molto da discutere), e tuttavia si tratta di una prospettiva da bilanciare con la volontà di superare la storica esclusione/discriminazione di determinati gruppi sociali.
Flavio Baroncelli in un prezioso libretto (“Il razzismo è una gaffe. Eccessi e virtù del politically correct”, Donzelli 1996) fece notare che il nodo della questione non è tanto l’utilizzo di questo o quel termine o il rispetto di regole imposte (?) da altri, ma “porsi il problema” del linguaggio che si usa, quindi del suo contesto, della percezione altrui, degli eventuali echi volontari o involontari. Appunto.
Lorenzo Guadagnucci è giornalista del “Quotidiano Nazionale”. Per Altreconomia ha scritto, tra gli altri, i libri “Noi della Diaz” e “Parole sporche”
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