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Terra e cibo / Opinioni

Perché la “sovranità alimentare” non c’entra nulla con sovranismo e retorica “Made in Italy”

© Judah Estrada - Unsplash

Il cambio di nome del ministero della Politiche agricole segna l’inizio di un nuovo percorso per i movimenti che hanno pensato e si sono battuti per la “sovranità alimentare”: idee e pratiche alternative al modello liberista, nate dal confronto tra mondi diversi e basate su una forte rivendicazione di diritti. Per un’altra agricoltura

Era il 1996 e a Roma presso la Fao si teneva il World Food Summit. In contemporanea al forum istituzionale, la società civile aveva organizzato un incontro alternativo presso la stazione Ostiense: centinaia di persone provenienti da Paesi diversi, con la leadership culturale di Via Campesina (rete mondiale dei piccoli agricoltori), per discutere di alternative al pensiero economico liberista.

È in questo humus culturale che nasce il termine “sovranità alimentare”, come risposta ai dogmi economici imperanti e con l’ambizione di lanciare un messaggio che possa tenere uniti Paesi e regioni del mondo, ma anche attori e classi sociali differenti. L’idea era semplice ma forse un po’ folle rispetto a quei tempi: lo sviluppo economico e agricolo, in molti Paesi coincidenti, non si può ottenere semplicemente con la liberalizzazione dei mercati e l’abbattimento della barriere tariffarie. Da qui la scelta del temine sovranità, per restituire dignità a politiche pubbliche e soggetti in carne e ossa, in procinto di essere spazzati via dall’asettica e presunta neutrale controrivoluzione neoliberista.

Non si trattava di una scelta di autarchia né nazionalista proprio perché nasceva dal confronto tra persone e mondi molto diversi e provenienti dai quattro continenti. Piuttosto era il tentativo di rilanciare una nuova politica, internazionale nel linguaggio e nelle reti di relazioni, ma locale nell’azione e nella concretezza delle pratiche. Si trattava di far passare il concetto che parlare di agricoltura è un tema complesso in cui storia, economia, ambiente, cultura, sistemi sociali e religione si mescolano tra loro per definire quelli che chiamiamo sistemi produttivi.
Per questo motivo, non ha senso lasciare le forze del mercato senza controllo e affidare l’economia-mondo alla legge dei vantaggi comparati di Ricardo, in base alla quale territori e regioni si devono specializzare su quelle colture dove riescono a competere meglio rispetto ad altre in questa ipotetica e ideologica competizione planetaria che mette sulla stessa linea di partenza il farmer statunitense e il contadino senegalese.

Come avevamo cercato di raccontare nel 2006 nel numero monografico “Agri-cultura Terra Lavoro Ecosistemi”, della rivista Ecologia Politica, si tratta di una battaglia impari. Sarebbe come mettere a competere per la gara dei 100 metri un velocista americano e un fondista etiope, non c’è storia. Il primo vincerebbe senza problemi ma lo stesso non si può dire se dovessero correre la 50 chilometri. In questo caso avrebbe meglio l’etiope. Il concetto di sovranità alimentare serviva per dire che Paesi e regioni avrebbero dovuto sviluppare delle politiche pubbliche (così come già facevano Unione europea con la Politica agricola comune, Pac, e gli Stati Uniti con il Farm Bill) per sostenere i proprio modelli produttivi, e immaginare e costruire le proprie traiettorie di sviluppo.

Inoltre, la sovranità alimentare si appoggiava su una forte rivendicazione di richiesta di diritti per quei soggetti sociali dimenticati e sfruttati dal progresso occidentale. Si saldavano in questo modo le richieste degli indios amazzonici, con quelle dei campesinos brasiliani o filippini, che, chiedendo un riconoscimento politico del loro mondo, contestavano l’appropriazione indebita di risorse naturali e agrobiodiversità da parte del sistema occidentale sempre più interessato a diffondere il proprio modello di tutela della proprietà intellettuale (brevetti e simili).

Purtroppo dal 1996 la sovranità alimentare non è riuscita a far breccia all’interno della cultura politica della sinistra, sempre più abbagliata dall’ideologia neoliberista. Nessun governo di centrosinistra ha assunto questo tema nella propria agenda politica, continuando a considerare il supposto libero mercato come unico orizzonte politico. Così, mentre una parte della società civile ha continuato a lavorare globalmente e localmente per tessere i fili di questa rete il cui orizzonte era ed è un altro modello di sviluppo (o meglio la possibilità di avere altri e pluralistici modelli di sviluppo), la politica si è resa impermeabile alla contaminazione con quanto succedeva fuori dai suoi palazzi. L’agricoltura è finita sempre più nelle mani della finanza e le catene di approvvigionamento di cibo e mezzi di produzione si sono allungate e concentrate in poche imprese multinazionali.

Oggi il cambiamento di nome del ministero della Politiche agricole alimentari e forestali (Mipaaf), con l’inserimento della sovranità alimentare, segna l’inizio di un nuovo percorso per la società civile che aveva coniato il termine. Infatti, è necessario ridare un senso alla parola sovranità per sottrarla agli equivoci del sovranismo o dell’autarchia e liberarsi, allo stesso tempo, dall’altra ideologia imperante nel settore agricolo, quella che riempie i discorsi con aggettivi come “eccellenze”, “tipicità”, “qualità” all’interno della retorica del Made in Italy.

Non si può impostare la nostra politica agricola sulla difesa del Parmigiano reggiano o del prosciutto di Parma, aggredendo i presunti contraffattori e negoziando accordi di vendita di questi prodotti in Cina. Il nostro tessuto agricolo e con esso il nostro paesaggio ci raccontano di una storia diversa, di un prodotto agricolo che si fa cibo diverso nei diversi territori, che plasma la nostra cultura e si fa plasmare da essa. In un gioco continuo di rimandi e relazioni tra soggetto (noi che mangiamo) e oggetto (il cibo). Non è l’eccellenza la chiave per capire la nostra agricoltura, ma l’arte della località. La capacità, cioè, dei sistemi locali (ambiente, società e piante/animali) di produrre e riprodurre nel tempo un cibo in grado di essere alimento e identità, simbolo dentro cui vedersi e riconoscersi. Ogni sistema, un insieme di tecniche e prodotti diversi.

Nel 2002 a Firenze, in occasione del Social Forum mondiale, un intero padiglione era stato dedicato alla sovranità alimentare, e i trattori di Via Campesina avevano aperto la manifestazione, plurale e pacifica, che aveva sfilato per le strade della città. Era chiaro per tutti che un’altra agricoltura e altre politiche agricole dovevano essere centrali per impostare dei diversi modelli di società. A novembre di quest’anno, a distanza di 20 anni, i movimenti si sono dati appuntamento di nuovo a Firenze per capire dove sta andando il mondo e quale sia oggi il senso dello slogan di allora “un altro mondo è possibile”. Tra i vari fattori cambiati in questi anni, i cambiamenti climatici ci ricordano che non si dovrebbe parlare più di possibilità ma di un obbligo di cambiamento di rotta. Uno dei temi in discussione nella riunione fiorentina dovrà essere proprio la nuova agenda della sovranità alimentare, dopo la sua apparizione improvvisa al grande pubblico di questi giorni.

Riccardo Bocci è agronomo. Dal 2014 è direttore tecnico della Rete Semi Rurali, rete di associazioni attive nella gestione dinamica della biodiversità agricola

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