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Perché i genitori di Giulio Regeni rifiutano l’etichetta di “genitori della vittima”

© Alisdare Hickson - Flickr

Il ruolo della vittima può essere una trappola, dove la memoria schiaccia la giustizia. Si sono ribellati. La rubrica di Lorenzo Guadagnucci

Tratto da Altreconomia 224 — Marzo 2020

Daniele Giglioli in un libro del 2014 (“Critica della vittima”, Nottetempo) mostrava i meccanismi etici, politici, culturali che hanno fatto della vittima, parole sue, “l’eroe del nostro tempo”. La vittima, dice in sostanza Giglioli, attira attenzione perché assume su di sé i tratti dell’innocenza e del prestigio. Quindi, genera ascolto e identità all’interno di un processo comunicativo che può divenire strumento di controllo e di governo. I reduci dal Vietnam, esemplifica Giglioli, sono stati rappresentati come vittime perché costretti a combattere una guerra ingiusta, a obbedire e uccidere, e così le vere vittime della guerra, i vietnamiti, sono passati in secondo piano. L’ideologia della vittima può arrivare a stravolgere la percezione del mondo. Perciò sono spesso i potenti a farsi passare per vittime in modo da suscitare sentimenti di comprensione e identificazione, guadagnando consenso a buon mercato. Qualcosa di simile avviene con le politiche della memoria. Si pensi alla commemorazione di un eccidio o di un genocidio: dietro la celebrazione emotiva delle vittime si nasconde spesso un effetto anestetizzante, un allontanamento dalla comprensione storica e politica dei fatti e dalle azioni concrete che ne potrebbero derivare come la contestazione attiva delle guerre o dei nazionalismi. Il ruolo della vittima può dunque rivelarsi una trappola, una camicia di forza.

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Lo hanno capito meglio di altri Paola Deffendi e Claudio Regeni, i genitori di Giulio Regeni, il giovane ricercatore torturato e ucciso in Egitto quattro anni fa. I due ne scrivono nel libro “Giulio fa cose” (Feltrinelli): “Ci rendiamo conto che qualcuno […] vorrebbe rinchiudere la nostra vita, la nostra identità, nell’immagine dei ‘genitori della vittima’ e di vittime a nostra volta. Ecco, non ci stiamo”. Le pagine dedicate al difficile rapporto con le istituzioni italiane mettono a fuoco un’idea di cittadinanza attiva e consapevole che si è tentato di soffocare in nome dell’ideologia della vittima. Dai genitori di Giulio Regeni ci si attende che esprimano dolore e anche indignazione ma affidandosi agli “esperti”, a chi può e deve occuparsi del caso alla luce della ragion di Stato. Una ragion di Stato spietata -si pretende di sviluppare con l’Egitto tutti gli affari possibili e le migliori relazioni diplomatiche, a dispetto della dittatura militare- nascosta dietro l’ostentazione di un impegno umanitario dichiarato ma privo di sostanza.

I Regeni non sono stati al gioco e nel loro libro raccontano le molte “amarezze” di questi anni: l’errata imposizione del silenzio al momento del rapimento; il ritorno del nostro ambasciatore al Cairo; l’evanescenza dello stesso ambasciatore nella ricerca di verità e giustizia. Paola e Claudio si sono rifiutati di recitare la parte prescritta: rifiutano intitolazioni a Giulio di luoghi ed eventi perché “non può esserci memoria finché non ci sarà giustizia”; si rivolgono a ministri e alti funzionari da cittadini adulti, custodi della vera memoria di Giulio, giovane uomo che ha subito un’ingiustizia in un preciso luogo e momento storico, e non generica vittima di un fatto fra tanti. In controluce si percepisce l’antica lotta per l’affermazione del principio di uguaglianza: i Regeni chiedono di considerare la vita e la morte di Giulio come l’asse portante della ragion di Stato; governi e ambasciatori sembrano incapaci di considerare la vita umana come un fine e non come un mezzo. Il cosiddetto caso Regeni è più importante di quanto normalmente si pensi.

Lorenzo Guadagnucci è giornalista del Quotidiano Nazionale. Per Altreconomia ha scritto, tra gli altri, i libri “Noi della Diaz” e “Parole sporche”

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