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Parlano i bambini lavoratori: non tramutateci in fuorilegge – Ae 17

Numero 17, maggio 2001Per qualche giorno una piccola nave introvabile nel golfo di Guinea è diventata un simbolo. Sembrava che su di essa si trovassero centinaia di bambini strappati dai loro villaggi e destinati ad essere venduti, come moderni schiavi,…

Tratto da Altreconomia 17 — Aprile 2001

Numero 17, maggio 2001

Per qualche giorno una piccola nave introvabile nel golfo di Guinea è diventata un simbolo. Sembrava che su di essa si trovassero centinaia di bambini strappati dai loro villaggi e destinati ad essere venduti, come moderni schiavi, nelle piantagioni di cacao dei Paesi che si affacciano sul golfo.
Poi la nave è arrivata in porto e si è scoperto che trasportava qualche decina di bambini, molti con i loro genitori: erano solo emigranti disperati, non molto diversi da tanti altri che la ricca Europa cerca di fermare ogni giorno prima che superino i confini stabiliti. E così la nave è sparita dalle prime pagine dei giornali, e con lei sono sparite le denunce dei funzionari dell'Unicef che in quei pochi giorni di attenzione avevano cercato di far conoscere la tragica realtà del lavoro minorile in quei Paesi.
E pensare che solo una ventina di giorni prima che scoppiasse il caso della nave, un folto gruppo di ragazzi e bambini lavoratori erano riuniti a Ougadougou, la capitale del Burkina Faso, uno di quei Paesi da cui arrivano i bambini costretti a lavorare nelle piantagioni della Costa d'Avorio, senza bisogno di attraversare il mare.
Erano rappresentanti di movimenti di bambini lavoratori sorti in 33 città africane, sparse in 16 Paesi del continente (Amwcy, African Movement of Working Children and Youth), ed erano lì per discutere dei loro problemi di ragazzi lavoratori, e per concordare una serie di emendamenti al documento della Sessione Speciale dell'Assemblea Generale dell'Onu sui bambini (Ungass) che si terrà nel settembre di quest'anno.

Le loro proposte cominciano proprio dal titolo del documento Onu che, nella versione originale, è: A world fit for children, a cui contrappongono: A world fit for and by children. Da “un mondo fatto per i bambini” a “un mondo fatto per e dai bambini”. Un'aggiunta in cui c'è l'affermazione del protagonismo di chi vuole partecipare a costruire un mondo migliore.
Il tema su cui questa voglia di essere protagonisti si scontra con l'impostazione dominante nelle convenzioni e nei documenti internazionali è la legislazione che limita le possibilità di lavoro per i minori. Semplificando si può dire che la contrapposizione è tra chi sostiene una posizione abolizionista e vuole una legislazione che vieti sempre e comunque il lavoro al di sotto di una certa età (di solito 15 anni) e una che reclama una valorizzazione critica del lavoro, sostenendo che il lavoro dei minori può, a certe condizioni, essere uno strumento di riscatto e di crescita.

L'importanza di questo problema è evidenziata in un emendamento a un punto del documento Onu, che, nella versione originale dice: “Molti trattati internazionali e convenzioni dell'Onu sono fondamenti essenziali per costruire un mondo adatto ai bambini. Noi incoraggiamo tutte le nazioni a sottoscrivere, ratificare e applicare questi strumenti il più presto possibile”. Qui i ragazzi hanno aggiunto: “Esse devono porre attenzione che nessuna di queste convenzioni trasformi i bambini in 'fuorilegge'”.
È un concetto su cui sembra difficile non essere d'accordo, e che nasce dall'esperienza diretta. La maggior parte dei bambini lavoratori operano in settori informali dell'economia, aiutando nei campi le loro famiglie, o facendo piccoli commerci nelle strade delle grandi città, e proprio questi sono i più esposti a leggi repressive, che offrono alla polizia gli strumenti per mille angherie.
I ragazzi africani hanno qualcosa da dire anche sull'attenzione posta dai trattati internazionali su quelle che vengono definite le forme peggiori del lavoro minorile. Sono forme di sfruttamento che tutti condannano, ma che è difficile definire come “lavoro”: bambini venduti come schiavi, o per debiti, o avviati alla prostituzione o impegnati in attività illegali legate allo spaccio della droga, o bambini soldato. Pur essendo ovviamente d'accordo sulla necessità di eliminare tutte queste forme di sfruttamento dei bambini, si chiedono se questo sia sufficiente, e se l'enfasi posta su queste forme di sfruttamento non sia un modo per i governi di salvare la faccia chiudendo gli occhi sulle forme più diffuse di vero lavoro infantile.

Così, all'esortazione del documento dell'Onu che invita i governi a impegnarsi a eliminare le peggiori forme di lavoro minorile, propongono di aggiungere la frase: “e migliorare le condizioni della maggioranza dei bambini che svolgono un lavoro in altre forme”. Val la pena di riportare il loro commento a questa proposta di aggiunta: “Se parliamo solo delle forme peggiori del lavoro per i prossimi 10 anni, chi ci aiuterà a migliorare le nostre condizioni di vita e di lavoro? Dovete aiutarci altrimenti ci scoraggeremo per sempre. Noi partecipiamo alle azioni e alle decisioni per tutti i bambini, ma voi dovete pensare a noi che lavoriamo normalmente nelle vostre decisioni dell'Ungass! È necessario che un bambino finisca nelle forme peggiori di lavoro per poter sperare in un aiuto?”.

Per sostenere queste posizioni i ragazzi dell'Amwcy hanno deciso di inviare al prossimo incontro preparatorio dell'Ungass, che si terrà al Cairo a fine giugno, una dozzina di delegati e hanno chiesto agli organizzatori di riservare due o tre giorni prima dell'incontro ufficiale a una discussione tra i ragazzi presenti, per preparare un intervento comune. È una chiara dimostrazione della loro volontà di partecipare alla definizione del documento dell'Onu, che non deve essere frustrata da convenienze diplomatiche o difficoltà burocratiche, ma che speriamo sia adeguatamente valorizzata.
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Ma bisogna distinguere tra “labour” e “work”
Secondo i dati dell'Oil sono 250 milioni i bambini lavoratori nel mondo, ma si tratta di una stima di cui nessuno è in grado di confermare l'attendibilità. Ben più difficile poi è stabilire la qualità di questo lavoro. Nei documenti ufficiali è invalso ormai l'uso di utilizzare le dizioni inglesi “labour” e “work” per distinguere tra un lavoro prestato in condizioni di sfruttamento, sotto un padrone vuole ricavarne profitti, e le prestazioni lavorative date in ambito familiare o in piccole attività autonome. Il primo (labour) sarebbe da combattere, il secondo (work) può essere considerato un lavoro utile alla crescita del bambino, purché non interferisca negativamente con le sue esigenze di studio e di gioco.
Questa distinzione sembra ormai accettata dalla maggior parte degli organismi che si occupano del problema. Mani Tese, ad esempio, nel Dossier sul lavoro infantile che affianca la campagna per la Global March 2001, dice chiaramente che ciò che deve essere eliminato è il “child labour”; cominciando dalle sue forme peggiori.
Ma come si fa a distinguere tra i due tipi di lavoro? E siamo certi che lo sfruttamento si attui solo sotto padrone e non anche nell'ambito familiare?
I movimenti dei bambini e ragazzi lavoratori sostengono che è controproducente cercare di semplificare il problema stabilendo semplicemente dei limiti all'età in cui si può cominciare a lavorare: solo i bambini stessi, organizzati in movimenti che fanno valere i loro diritti, possono stabilire se un lavoro è adatto a loro e compatibile con le loro esigenze.
Dal 1998 l'Oil ha attivato un programma di monitoraggio su scala mondiale (Simpoc, Statistical Information and Monitoring Programme on Child Labour), ma i criteri con cui distinguere un lavoro sfruttato da uno accettabile restano ancora da definire.
Il problema è importante perché ha ripercussioni sulle leggi attinenti il lavoro minorile. Un esempio vicino a noi è la proposta di legge sulla “Certificazione di conformità sociale” che era stata proposta nella precedente legislatura sulla spinta della campagna “Acquisti trasparenti”. Nella premessa si parla di forme intollerabili di sfruttamento del lavoro minorile, ma poi si finisce per pronunciarsi contro ogni tipo di lavoro minorile, senza riuscire a mantenere l'auspicata distinzione. Indubbiamente le forme di lavoro cui pensano i proponenti della legge sono quelle che vedono i bambini lavorare per industrie multinazionali, spesso in condizione di sfruttamento accentuate da meccanismi di subappalto e di lavoro nero, ma questi sono solo una piccola minoranza dei bambini lavoratori, da eliminare certamente, ma senza rischiare di colpire anche altre possibilità di lavoro dignitoso.
Come ricorda anche il dossier di Mani Tese, nei negozi del commercio equo si trovano alcuni prodotti che provengono da esperienze di lavoro protetto, gestite da movimenti di ragazzi lavoratori, e un divieto indiscriminato all'importazione di prodotti in cui è presente qualunque tipo di lavoro minorile finirebbe per tagliare ogni possibilità di sviluppo a queste esperienze.

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Per approfondire: bambini in rete
Sul Traffico di bambini in Africa occidentale
http://www.unicef.org/media/newsnotes/01nn01.htm

Dossier sul lavoro infantile di Mani Tese
http://www.manitese.it/global_march/dossier.htm

Sulla Sessione speciale dell'Onu si bambini Ungass
http://www.unicef.org/specialsession/

Sui problemi di conoscenza, monitoraggio e statistiche sul lavoro minorile (Simpoc)
http://www.ilo.org/public/english/standards/ipec/simpoc/index.htm

Documenti dei movimenti dei Bambini lavoratori e di ItaliaNATs
http://www.equomercato.it/nats.htm

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