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Non c’è solo il carcere

La giustizia riparativa è un’alternativa alla detenzione, una forma di “castigo produttivo” che favorisce il reinserimento sociale dell’autore del delitto

Tratto da Altreconomia 136 — Marzo 2012

La giustizia riparativa è un modello alternativo di intendere la giustizia. Un modello in cui si ristabiliscano e riconoscano i ruoli: l’autore del delitto e la (sua) vittima. Carlo Alberto Romano insegna Criminologia all’Università di Brescia. Dal 1997 però è alla guida dell’associazione “Carcere e territorio” della città, che si occupa di progetti coi detenuti dei due istituti penitenziari di Canton Mombello e Verziano. Siamo abituati a pensare che chi commette un crimine debba essere punito col carcere, in funzione di quanto stabilisce la legge. E ci indigniamo se la giustizia non fa il suo dovere. “In occasione di un delitto però la vittima è anche la comunità, che genera il reato e lo subisce. Nel modello rieducativo carcerario, la comunità è esclusa. Letteralmente tenuta fuori dal percorso di riparazione del danno subito.
Oggi il modello rieducativo, fondato sull’incarcerazione, ha mostrato tutti i suoi limiti. Il carcere non assolve al compito sancito nella nostra Costituzione all’articolo 27, ovvero al reinserimento del detenuto nella società. Semmai, dopo averlo sottoposto a condizioni di privazioni estreme -i numeri sulle condizioni delle carceri in Italia sono noti- il detenuto è abbandonato e torna facilmente  a delinquere”.
Quali sono le misure di giustizia riparativa?
“Le modalità applicative del paradigma riparativo, secondo l’International Scientific and Professional Advisory Council (Ispac), ricomprendono svariate tipologie di programmi adottate nei diversi Paesi. Si va dal semplice invio di una lettera di scuse alla vittima da parte dell’autore del reato a incontri tra vittime e autori di reati analoghi a quello subito dalle vittime, fino all’espletamento di un’attività lavorativa a favore della vittima stessa o della collettività. Quest’ultima misura in particolare, nota come community service order, è una sanzione che impone al colpevole di svolgere nel tempo libero un lavoro non retribuito a vantaggio della società per un numero di ore variabile.
Quasi in tutti i Paesi l’applicazione di tale misura comporta la valutazione dell’effettiva utilità della stessa e della possibilità concreta che possa costituire un valido aiuto per il reinserimento del soggetto, ovviamente avuto riguardo anche alla scarsa probabilità di recidiva dello stesso”.
In Italia l’ordinamento prevede misure di questo tipo?
“Esistono sia nella fase dell’esecuzione penale -impieghi dei detenuti fuori dal carcere- che alternativi alla pena tradizionale della privazione della libertà. Da noi si chiamano ‘lavori di pubblica utilità’. È un fenomeno per ora non molto sviluppato, anche se sta decollando in particolar modo in riferimenti a reati legati al codice della strada: l’articolo 186 dice proprio che ‘la pena detentiva e pecuniaria può essere sostituita, anche con il decreto penale di condanna, se non vi è opposizione da parte dell’imputato, con quella del lavoro di pubblica utilità. Il codice della strada fa riferimento al decreto legislativo 274 del 2000, che apre alla giustizia riparativa. In Senato giace un disegno di legge (il numero 3038, ndr) che potrebbe allargare l’ambito della giustizia riparativa”.
A quali condizioni la giustizia riparativa è preferibile al carcere?
“Innanzitutto, posto che l’utilizzo del carcere non è inevitabile, la giustizia riparativa non si applica ad ogni tipo di reato, ma solo a quelli di minore entità. Tuttavia,  ha il merito di non andare a inflazionare la condizione carceraria, il che è già molto, visto che il 40% dei detenuti italiani non è condannato definitivamente, e due terzi del totale hanno una condanna o un residuo di condanna inferiore a tre anni (vedi box). Il carcere non è pieno di ergastolani, come forse siamo portati a credere. Questo è importante tenendo  a mente le cifre del carcere in Italia: 67mila detenuti in strutture con 46mila posti, a fronte di un piano per l’ampliamento delle carceri fermo. Inoltre, la letteratura in merito ci fa dire che la sanzione agita sul territorio produce livelli di recidiva molto più bassi di chi va in carcere. Ovvero dal 70 al 25%. La giustizia riparativa è un rafforzamento del ruolo del territorio: chi ha commesso un reato deve essere punito, e il castigo deve essere il più produttivo possibile. Non quindi solo sofferenza fine a se stessa. Se la vittima è tutta la comunità, questa deve essere partecipe dei percorso di reinserimento del condannato. Una pena pecuniaria non sarebbe sufficiente, perché risulterebbe del tutto indolore a chi ha maggiori disponibilità economiche. A Brescia, ad esempio, collaboriamo molto con l’Associazione delle vittime della strada, che lavora con chi ha commesso un reato stradale per evitare che si ripeta. È molto più efficace.
Abbiamo un altro progetto con il Comune di Monte Isola, nel lago d’Iseo. L’amministrazione ha voluto mettersi in gioco e dare la possibilità a un detenuto di Brescia di fare volontariato presso la protezione civile. La comunità ha capito che non si tratta di un mostro, ma di una persona che ha intrapreso un percorso”.
Il governo lavora a un piano “svuota carceri”.
“Lo ‘svuota carceri’ è un’operazione che ha il suo senso, poiché cerca di ristabilire la legalità allargando le maglie della detenzione domiciliare. Ma questo non è sufficiente. Occorre andare oltre: se il detenuto non ha nessuno, se non ci sono reti relazionali attive, se non ha lavoro, la situazione rimane grave”. —

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